(di Alessio Musio)
Non si può capire il tema dell’amicizia senza cogliere il tratto costitutivo delle relazioni umane. Ogni legame, infatti, coinvolge soggetti che sono separati e che restano diversi gli uni dagli altri — nei loro corpi, prima ancora che nei loro sentimenti o pensieri. Diversità e separazione sono, così, lo sfondo di ogni relazione umana, uno sfondo che l’amicizia non cancella, ma trasforma, venendo messa costantemente alla prova del segreto e della temporalità.

Essere reciprocamente un segreto
Come spiegava il filosofo francese Jacques Derrida, c’è differenza tra essere un segreto e avere un segreto. Ciascuno di noi è, infatti, un segreto per gli altri proprio perché è un altro essere umano: un altro corpo, un’altra coscienza, un altro pensiero. Non ci si pensa quasi mai, ma nessuno può sentire direttamente il corpo dell’altro così come percepisce il proprio (nemmeno nelle dinamiche dell’amore fisico e carnale), o pensarne il pensiero rendendosi conto della stessa fatica, inquietudine o soddisfazione che questi vive mentre, per fare un esempio, si trova di fronte alle significative decisioni che deve prendere sul lavoro, o a proposito di un rapporto che da solo sembra in grado di ridirne la storia, passando per le scelte relative a un corso di studi o alle cure che sembrano dover essere intraprese per far fronte a una malattia, ecc.
Essere reciprocamente un segreto è, in questo senso, una situazione per certi versi comica e per altri drammatica: si pensi a che cosa possa significare, per una madre o per un padre, non poter “sentire” direttamente, come se fosse il proprio, quel dolore o quella sofferenza, di cui vedono con inquietudine le tracce, o di cui cercano di decifrare i segni, nel loro bambino; ricordiamoci di tutte le volte in cui, anche ridendone, non siamo riusciti a comprendere l’altro o non ci siamo sentiti compresi, e di quelle occasioni, infine, nelle quali ci siamo scoperti insieme, più che soltanto d’accordo, in un tratto significativo della nostra vicenda umana (personale e politica).
Avere un segreto, invece, è completamente un’altra faccenda. Chi ha un segreto, infatti, è qualcuno che volontariamente non rivela qualcosa di sé o di ciò che sa, e così lo nasconde, sino a giungere alla possibilità dell’inganno, della menzogna, della manipolazione, cercando di imbrigliare nell’occultamento la libertà e la soggettività dell’altro.
In fondo, tutte le relazioni umane convivono in modo diverso con queste due forme di segreto, ma mentre la prima è inevitabile, la seconda è una possibilità, una scelta negativa, di cui si porta la responsabilità. Così, il tema del segreto dell’altro — che in chiave teologica richiama quello del suo mistero inesauribile, a motivo della relazione creaturale che pone ogni figlio d’uomo, prima che con gli altri soggetti umani, in un legame fondamentale con Dio — possiede a ben vedere un’importanza decisiva nelle relazioni umane.
«[…] Come dobbiamo regolarci con questa storia, questa storia così importante, la storia degli altri, che si rivela priva del significato che secondo noi dovrebbe avere e che assume un significato grottesco, tanto siamo male attrezzati per discernere l’intimo lavorio e gli scopi invisibili degli altri?» — si chiedeva con evidente amarezza lo scrittore americano P. Roth, in uno dei suoi più riusciti romanzi. Eppure, il segreto costitutivo dell’altro è anche all’origine di quella volontà di mostrarsi, di rivelarsi e di farsi conoscere, da cui comincia ogni amicizia e affetto umano, in modo che il nostro essere separati — il nostro essere un altro corpo, altri pensieri, altri sentimenti — possa trovare, più che soltanto comprensione, verità e stima (ché, senza stima, la verità può distruggere come una diagnosi infausta).
L’importanza di questa comprensione, che è rara e preziosa proprio perché proviene da qualcuno che è per definizione da noi diverso e separato, non è, però, mai fine a se stessa, visto che non si è amici soltanto allo scopo di sentirsi compresi (la negazione narcisistica dei legami comincia già qui), ma per condividere qualcosa di oggettivamente importante e di vero. Quando questo «essere insieme», questo «agire di concerto» si realizza, accade qualcosa di eccezionale, proprio perché nasce da uno sfondo non solo di differenza, ma di separatezza, segretezza e quindi, in fondo, non voluta opacità. Ecco perché l’amicizia non ha nulla a che spartire con dinamiche di assimilazione. La negazione delle differenze, lo sprofondare nell’indistinzione, il «contagio emotivo» che spersonalizza gli individui nei fenomeni di massa (banalmente già nel tifo calcistico) sono, infatti, l’esatto contrario dell’amicizia.
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La tessitura temporale dell’amicizia
Aristotele diceva che «l’amicizia non è una proprietà o una qualità di un soggetto», perché nell’amicizia è in gioco qualcosa di molto più profondo delle vanaglorie proprietarie, «come la desiderabilità stessa dell’esistenza». «L’esistenza» — scriveva con parole che conservano immutata la loro forza da più di duemila anni — «è desiderabile perché si sente che essa è una cosa buona e questa sensazione è in sé dolce. […] e come rispetto a se stessi la sensazione di esistere è desiderabile, così sarà anche per l’amico». L’amicizia, dunque, è la desiderabilità dell’esistenza dell’altro e della nostra insieme con lui, secondo un’intuizione che possiamo connettere all’idea vertiginosa, che sarà di Gabriel Marcel, per cui «colui che ama dice: “tu non morirai mai”». Un’osservazione profondissima questa, e però nello stesso tempo terribile: non solo perché risuona come un test di realtà della consistenza delle nostre relazioni (se non si arriva a desiderare qualcosa di simile, in fondo, non è poi così sicuro che si ami…), ma perché l’uomo che ama, promettendo all’altro che non morirà mai, non è in grado di mantenere e rendere possibile questa sua promessa, abbracciando insieme temporalità ed eternità.
Nondimeno, vivere l’amicizia (e più in generale le relazioni affettive) in modo buono significa condividere la bellezza dell’esistenza, gioire senza invidie del reciproco esistere, e guardare con apertura agli amici, che ci accompagnano nel tempo. L’osservazione antropologica di Papa Francesco secondo cui «il tempo è superiore allo spazio» sembra valere, infatti, per l’amicizia nel più elevato grado.
Proprio perché l’amicizia non ha nulla a che fare con l’assimilazione, con la negazione della differenza, con il magico provare esattamente quello che l’altro sente — se qualcosa di simile fosse possibile, l’altro in realtà scomparirebbe e io sarei in relazione solo con me stesso —, il tempo è l’elemento decisivo per manifestare la consistenza dell’amicizia come rispetto della libertà e differenza dell’altro. Sempre Aristotele spiegava, infatti, che la vera amicizia «richiede tempo e consuetudine», visto che «non è possibile conoscersi reciprocamente amici prima di aver consumato insieme il sale». Per dirsi amici non basta, insomma, incontrarsi, piacersi e trovarsi uniti in un certo momento, ma occorre, appunto, che le relazioni abbiano in sé il respiro lungo (e l’amarezza salina) della temporalità. Infatti, non «è possibile accogliersi come amici, né essere amici, prima che ciascuno si sia manifestato all’altro degno di essere amato e prima che ciascuno abbia ottenuto la confidenza dell’altro».
Ed è qui che il tema dell’amicizia mostra la difficoltà della sua scrittura temporale. Perché a questa latitudine non si ha a disposizione alcuna formula matematica — come se fosse possibile moltiplicare il numero delle volte in cui ci si è visti, per il numero delle volte in cui l’altro si è dimostrato affidabile, e ottenere, in questo modo, quanto alla fine spetta, invece, solo alla nostra libertà stabilire. Da un lato, perché questa affidabilità riguarderebbe appunto il passato, mentre, se ha un senso, la fiducia è proiettata in forma progettuale. E, dall’altro, perché essa resta qualcosa di cui si è investiti.
Soltanto rileggendo il discorso di Aristotele, si potrebbero capire molte altre cose sull’amicizia umana. Ma in conclusione non si può non osservare come la sua logica temporale, intessuta di segreto, diversità e separazione, sia completamente diversa da quella inscritta nella natura della Trinità. Mentre nella nostra esperienza la possibilità della relazione deriva proprio dall’essere delle sostanze separate, nella logica trinitaria è la stessa relazione a essere così indissolubile da costituire la sostanza, spazzando via in questo modo ogni separazione e segretezza. Il fatto dell’Incarnazione “immette”, poi, questa stessa logica nella temporalità delle ambivalenze umane, trasformando così anche il senso dell’amicizia personale.
D’altro canto, poiché noi uomini sappiamo bene quanto abbiamo bisogno, a volte, di prenderci del tempo per stare da soli, e di staccarci per un po’ persino da quelle amicizie a cui pure mai rinunceremmo, questo non spiega solo quanto poco abbiamo capito della Trinità, ma spinge a chiedersi come una relazione possa essere così sostanziale da far in modo che non si desideri staccarvisi mai.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 18, NUMERO 2, Giugno 2017