(di Marco Dotti)

Le nostre società sono spesso dominate dalla paura. Con linguaggio critico più attento, uno studioso di scienze della politica direbbe che le nostre società sono basate sulla paura. La paura può essere dunque un fondamento. Può costituire il vettore di una legatura sociale posta a fondamento e base del vivere comune. Ma anche della sua dissoluzione…

Dobbiamo aver paura della paura?

Nel 1651, il filosofo e matematico inglese Thomas Hobbes pubblica un libro destinato a cambiare, e non poco, il nostro rapporto con la paura, la verità, la legittimazione del potere e, in termini ancora più radicali, il rapporto fra paura, protezione e libertà. Nel Leviatano — questo il titolo del lavoro di Hobbes — la paura (in inglese fear) è un fondamento. A differenza del sentimento aristocratico dell’onore, ha osservato Remo Bodei, la paura è un sentimento comune a tutti. Percorre gli strati sociali, ma anche i molteplici stadi dell’essere, tanto che la domanda che percorre le nervature sociali non diventa più “come non avere paura”, ma “cosa fare di/con questa paura”. O meglio: che cosa “fondare” su queste fondamenta fragili?

La risposta di Hobbes è nota — forse troppo, tristemente nota: la paura è una risposta all’incertezza, ma se l’incertezza genera paura allora serve protezione. Servono sistemi che, in qualche misura, garantiscano rispetto al collasso della stabilità sociale, serve lo Stato. Come ha notato un altro filosofo italiano, Salvatore Veca, è in questo contesto che trova davvero spazio l’affermazione — lucida e chiarificatrice — di Jean–Paul Sartre che ricordava come, in un universo dominato da paura e incertezza e da un rapporto verticale con una potestà terrena, «l’inferno sono gli altri». L’inferno diventa la relazione.

Caos futuro

Non la fiducia — come sarà per David Hume —, infatti, ma la paura diventa dopo Hobbes la fonte della legittimazione dell’auctoritas. Senza un potere che freni o un potere che domi l’incertezza, si cadrebbe nello stato di natura ovvero in una condizione presociale. Uno stato di natura che Hobbes non colloca alle nostre spalle, ma nel futuro, proiettando la paura stessa — i sociologi, due secoli più tardi, la chiameranno paura dell’anomia, ovvero dell’assenza di regole fondative e regolative — dentro ogni speranza e dentro ogni attesa. Senza una cessione di libertà al potere autoritativo, si piomberebbe nel caos. Ma il caos rischia di prodursi (e non solo nella forma della guerra) proprio per questa cessione verticale di sovranità a scapito di quella orizzontale.

L’insecuritas diventa allora la chiave di volta affinché il singolo rinunci a porzioni di libertà e potere e conferisca allo Stato — il Potere — una delega perenne a tutelarlo dalla paura e — illusoriamente — a privarlo dei rischi dell’incertezza. La guerra civile è sospesa, finché regge la legittimazione dell’auctoritas tutto regge. Il colpo di genio di Hobbes è stato proiettare lo stato di anarchia — quello che si addice alle belve e alle fiere — non dietro, ma davanti a noi. Così facendo, si innesca un processo di “profezia che si autoavvera” e trae la propria legittimazione dalla stessa insicurezza che si propone di domare e di cui ora, noi, vediamo l’effetto estremo su scala globale e locale attraverso processi di continui e molteplici sradicamenti valoriali, sociali, etici. Umani.

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Fuori dall’inferno della paura

La paura — come aveva già intuito il filosofo olandese Baruch Spinoza — è una passione d’incertezza. Oggi, nel nostro tempo segnato da «passioni tristi», incertezza e insicurezza fanno nascere in forme forse non strutturalmente inedite, ma in inedite modalità pervasive, il bisogno di protezioni sociali.

In qualche modo, la tarda modernità in cui viviamo sembra contraddistinguersi per il tentativo di domare l’incerto passando, attraverso le tecnoscienze, dall’incertezza alla probabilità. Singolare è il fatto che tra i pochi concetti che i Greci non possedevano c’era, appunto, quello di probabilità che potremmo definire come la “misura dell’incertezza”: per loro le cose potevano accadere o non accadere ma non se ne poteva dare calcolo. Resta da chiedersi se le protezioni sociali siano, oggi, d’ostacolo o di supporto a questa opera di prevenzione del rischio e di misurazione dell’incerto. Il calcolo è l’ultima deriva di questo sogno di protezione: vogliamo calcolare, certificare, prevedere l’imprevedibile. Lo vediamo dall’emergere di una nuova ossessione per i dati, il considdetto dataism, che sta per colonizzare il discorso pubblico riconfigurando in termini quasi–religiosi il rapporto tra la realtà e i dati di realtà. Questo comporta una riconfigurazione completa della realtà e una svalutazione dell’esperienza umana. Per l’ideologia del dataism, «le esperienze umane non sono sacre». Ci troviamo così davanti a un paradosso: l’esperienza della paura diventa paura dell’esperienza. Statiticità totale.

Fine della violenza?

II sociologo francese Robert Castel invita a distinguere due tipi di protezioni sociali. In primo luogo, esistono protezioni civili, che tutelano le libertà fondamentali e assicurano la sicurezza di beni e persone all’interno di uno spazio giuridico omogeneo (Stato di diritto). In secondo luogo, vi sono protezioni sociali che “coprono” contro i principali rischi di degrado della condizione degli individui. Dalla malattia all’infortunio, al rischio di una vecchiaia senza mezzi di sostentamento: è il grande tema del welfare.

Su entrambi i fronti, Castel invita a considerare che le nostre — seppur dominate dalla passione triste della paura — sono forse le società più protette di sempre.

L’ossessione sicuritaria, lungi dall’essere un fantasma, rivela un tratto tipico del nostro rapporto — di soggetti volenti o no calati nel moderno — con lo Stato. L’individuo pretende sempre più sicurezza da quello stesso apparato che lo ipervalorizza, valorizzando il legame verticale (dipendenza dallo Stato) a discapito dei legami forti orizzontali (famiglia, gruppo, vicinato), ma proprio in questa ipervalorizzazione lo rende fragile e dipendente.

Come soggetti presi nella loro forma di individui, denudati cioè di ogni legame originario che non sia la paura dell’altro («l’enfer, c’est les autres» di Sartre), «la domanda di protezione è infinita perché l’individuo in quanto tale è collocato fuori dalle protezioni di prossimità». Collocare l’individuo fuori dai legami di prossimità — a titolo di esempio: la linea che va dalla dissoluzione della famiglia come gruppo, favorendo prima la famiglia mononucleare, poi dissolvendo anche la stessa trasformando il patto in contratto — significa, di fatto, rendere inutile il sociale. È in questo paradosso circolare (insicurezza, paura, richiesta di protezione, ipervalorizzazione dell’individuo, vulnerabilità sociale dell’individuo, richiesta di sicurezza, paura di perdere questa sicurezza ovvero le protezioni “sociali/civili”) che si contorce il paradosso della paura.

Si può fondare diversamente un legame sulla paura?

Forse uno degli autori che più hanno contribuito a comprendere questo paradosso è stato il sociologo tedesco Ulrich Beck, autore di una decennale analisi sulla “società del rischio”.

«La paura crea la propria realtà», scriveva il sociologo tedesco. Una realtà che mette il mondo in radicale pericolo. «Senza una lingua per il futuro», dichiarò nel 2001, in una conferenza alla Duma, vivremo in una società mondiale del “rischio” dove parole come “guerra”, “violenza”, “crimine”, “terrorismo” indicheranno tutto e niente lasciando l’uomo in balìa dei suoi fallimenti. Ma dalla paura può anche inaspettatamente nascere un nuovo legame sociale. Un legame da ripensare orizzontalmente, secondo la vecchia immagine del “siamo tutti nella stessa barca” o della “comunità di destino”.

Sappiamo che le biotecnologie, le manipolazioni genetiche, lo sfruttamento intensivo delle risorse energetiche e ambientali segneranno il nostro futuro prossimo ma nessuno può veramente conoscere che cosa quel futuro riserverà alle prossime generazioni. Ma la chiave di questo ragionamento è un’altra: ricollocare la paura al limite. Ricollocare il timore dell’incertezza non all’idea che «non ci debbano essere limiti» e si debba vivere in una perenne condizione post–mortale. Al contrario, il timore, il limite, va ridefinito ribadendo il limite estremo e la paura/necessità di confrontarvisi: siamo mortali, essere vivi significa aver paura della morte. Non a caso, il nuovo terrorismo è una pratica di rimozione della paura davanti alla morte. In un’intervista rilasciata nel 2007 al mensile francese Philosophie Magazine, Beck affermava: «Paradossalmente, la paura può creare un legame sociale attraverso una nuova forma di opinione pubblica. Prendiamo l’uragano Katrina: i reportages dedicati dai media internazionali alla Nouvelle–Orléans hanno diffuso in tutto il mondo terrore davanti alla povertà e al razzismo degli Stati Uniti. L’Altro “escluso” è subito onnipresente e focalizza allo stesso tempo l’interesse nazionale dei Paesi occidentali. I rischi globali ci costringono dunque a considerare gli altri, i culturalmente altri, nelle nostre valutazioni del mondo.

L’altro, un rischio

Nella crisi che sta travolgendo il nostro mondo, irrigidendolo in forme sempre più lontane dalla vita, il pericolo corre su superfici lisce e globali. Al tempo stesso, però, questo pericolo ha ricadute verticali, profonde. Che cosa resta da fare? Forse nient’altro che rompere quelle forme, facendo comunità, andando verso ciò che proprio Ulrich Beck ha chiamato una «comunità esistenziale di destino». Solo così, riconoscendo l’Altro e legandosi all’Altro in una comunità di destino è possibile uscire dalla “realtà” della paura riconoscendo che avere paura è parte del proprio e comune (alla conditio humana) rapporto con la realtà, anche con la realtà del rischio.

Forse paura e fiducia possono non essere sentimenti antitetici, ma convivere in quella soglia di comune esitazione (il chiaroscuro, come lo definisce nel suo ultimo libro Alessio Musio) che fa della nostra vita e della nostra libertà qualcosa di indissolubilmente legato alla perturbante presenza dell’altro. Un altro che proprio perché altro è sempre un rischio. Un «bel rischio». 

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 18, NUMERO 3, Settembre 2017

Marco Dotti è nato a Chiari, in provincia di Brescia, e fa parte del gruppo di direzione del mensile Communitas e della redazione di Vita. È docente di Professioni dell’editoria al corso di laurea in Comunicazione (Cim/Cpm) dell’Università di Pavia. Nel 2013 ha pubblicato: Slot city. Milano‒Brianza e ritorno (RoundRobin, 2013), Il calcolo dei dadi. Azzardo e vita quotidiana (ObarraO, 2013) e curato No slot. Anatomia dell’azzardo di massa (Feltrinelli Zoom, 2013). Scrive o ha scritto per il manifesto, Alias, Lettera internazionale, L’Indice.