(di Paolo Fuoli)
In un tempo così caratterizzato, da un lato, dalla difesa dei confini e, dall’altro, dal desiderio di superarli per raggiungere nuove mete e nuovi sogni di vita e sopravvivenza, ascoltiamo il racconto dell’esperienza vissuta da un giovane operatore del sistema di accoglienza trentina, che si è messo in cammino per vedere coi propri occhi la difficile situazione vissuta dai migranti sul territorio Serbo-Croato. Un incontro che ha lasciato tracce profonde e domande aperte di fronte all’impotenza nel cambiare una situazione che risulta umanamente inaccettabile, pur rivelando al contempo tutta la sua complessità politica.

“Devo sporgermi al di là di questo confine se voglio saper accogliere più profondamente”, queste le parole che per un lungo periodo sono state lo sfondo sonoro della mia mente. Ero inserito nel sistema di accoglienza trentina da ormai due anni, ricoprendo il ruolo di operatore, quando si è resa evidente la mia incapacità di accogliere persone che si presentavano nel mio ufficio ogni giorno, con la speranza di costruire insieme un percorso di inserimento nel loro nuovo contesto sociale.
Ho provato, per molti mesi, una chiara sensazione di dover varcare un confine mentale, oltre che fisico, per potermi immergere più intensamente in quegli sguardi che tutti i giorni mi chiedevano di poter trovare delle strategie, dei percorsi per vivere dignitosamente in Italia. Mi sentivo impreparato, avevo la convinzione, che rimane tuttora, che non fossi in grado di preparare una degna accoglienza per il mio ospite in quanto non avevo gli strumenti adatti per farlo. Ho deciso, pertanto, di allacciarmi le scarpe per fare alcuni passi verso le migrazioni del nostro tempo, per dare più profondità alle mie relazioni con “lo straniero”, fermo nella convinzione che così facendo sarei riuscito ad accogliere meglio e convinto che il mio percorso a ritroso lungo la lunga rotta migrante avrebbe contribuito a stimolare lo stesso bisogno ed interesse nelle persone alle quali avrei raccontato il mondo “al di là della frontiera”.
Šid
Sono quindi partito verso est, iniziando il mio cammino in Serbia, più precisamente a Šid, località a pochi chilometri dal confine Serbo-Croato. Mi sono fermato per alcune settimane con No Name Kitchen, organizzazione spagnola nata nel marzo del 2017 come risposta al grande flusso di migranti che da Belgrado, la capitale del Paese, si sono spostati verso nord, pochi passi più in alto verso la tanto agognata Europa. Era l’inizio di marzo e quel posto mi si è scagliato addosso con tutta la sua ferocia. L’inverno mordeva e quel che più mi ha “freddato” al mio arrivo sono state le condizioni disumane nelle quali un centinaio di persone si ritrovavano a vivere.
In Serbia esistono attualmente 18 centri di accoglienza che però, data la loro marginalità rispetto ai centri urbani, la scarsa presenza al loro interno di attività di inserimento socio–lavorativo e la loro distanza dalle frontiere, vengono abbandonati per la sola e importantissima ragione di potersi avvicinare all’Europa. La situazione che ho incontrato, però, mi ha sbattuto in faccia tutta la crudeltà del mondo frammentato e diviso, e delle situazioni di confine nelle quali alcuni diritti fondamentali non sono tutelati né rispettati.
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No Name Kitchen è l’unica organizzazione quotidianamente presente in quel perimetro abbandonato e si avvale di volontari che portano avanti attività di distribuzione pasti, coperte, vestiti, garantiscono un servizio docce due volte alla settimana (è presente anche Medici Senza Frontiere che provvede all’assistenza medica e al servizio docce due giorni a settimana in coordinamento con No Name Kitchen) e cerca sempre di avere nel proprio organico medici ed infermieri di fondamentale importanza in un contesto così esposto a pericoli che mettono a serio rischio le condizioni psico–fisiche dei migranti.
«La vita a Šid è difficile» «Sono solamente un rifugiato!» «Sono triste» «Siamo diventati degli animali!» «Puoi portarmi in Italia con te? Quando rientri?» «Insallah» «Ciao fratello, a domani» «Apriranno mai le frontiere secondo te?» «La notte non dormo» «Guarda, sono come uno dei tanti cani randagi di questo paese» «E quella là — sguardo rivolto oltre il confine— sarebbe l’Europa dei diritti?» «Perché ci fanno tutto questo?» «Voglio andare in Germania!» «Voi italiani siete persone accoglienti» «Vivo affinché mio figlio possa avere un futuro migliore»
Questi sono alcuni dei pensieri, tra rabbia e sottile speranza, che occupano le menti delle tante persone in viaggio. Li ascolto e sento che la mia bocca non può pronunciare alcuna parola definitiva, vorrei poter dire ad Amir, Faesal, Ahmed, Jamila, Raky, Omid, Kiko, Maria che le cose andranno bene, che l’Europa la raggiungeranno trovando così un po’ di tranquillità. Mi sento però stretto in una morsa, bloccato tra “bugie bianche” e “crude verità” e rimango solamente in ascolto, attendendo con lo spirito che qualcuno intervenga per dar pace a tutte quelle sofferenze.
Ci si ritrova spesso ad aspettare attori più forti, perché di fronte ai molti dubbi e alle mille paure che impregnano l’aria di Šid, ogni tanto ci si blocca sentendosi attori troppo deboli per poter cambiare le cose. Le loro frustrazioni inevitabilmente diventano le tue, quando capisci che di fronte a te non si trovano altro che persone “di un altro colore, ma con il tuo stesso identico umore”. Perché si, l’umore non può che annerire quando entri in contatto con tutta questa sofferenza, tutta questa ingiustificata violenza e tutta questa assordante assenza, di diritti, di istituzioni, di condizioni di vita dignitosa e di umanità.
The game (il gioco)
Ciò che più mi ha psicologicamente disturbato sentire e vedere nei tre mesi trascorsi in terre balcaniche è stato che il tentativo di oltrepassare le frontiere si è linguisticamente, oltre che politicamente e culturalmente, ridotto a semplice “gioco”. «I’m going to the game» (vado al gioco), mi dice Ali una sera. Io non capisco ma rimanendo al suo fianco per qualche minuto mi rendo conto che, quello che la mia mente traduce come un’azione volta allo svago del corpo e della mente, è in realtà qualcosa di molto più serio e pericoloso. Sfoglio il dizionario, incredulo rispetto a ciò che succede alla frontiera e scopro che “competizione di vario tipo tra due o più persone, basata su regole, il cui esito dipende dall’abilità o dalla sorte” è la seconda voce che appare cercando la definizione di gioco.
Mi guardo dentro e mi chiedo se si sia davvero stracciato così il diritto al movimento, il valore e la dignità della vita umana rendendoli un mero gioco a “guardie e ladri” dove i ladri sono uomini, donne e bambini in fuga da persecuzioni, guerre, da Paesi che non garantiscono la libertà di parola, di culto e di amare chiunque si voglia e, dall’altra parte, le guardie sono interpretate dalle forze dell’ordine dispiegate alle frontiere. Sta davvero succedendo tutto questo? Continuo a bofonchiare tra me e me e mi chiedo “verso quale destinazione sta andando il nostro mondo?”. Me lo chiedo tutti i giorni da quando mi sono imbattuto in un territorio che rimane ancora troppo nascosto e lontano da noi nonostante l’esigua distanza fisica di queste terre.
Ali mi racconta che quello che sta per intraprendere è il quarantasettesimo “gioco”. Ci si prepara la sera, portando con sé il necessario fatto di coperte, sacco a pelo, scarpe in buone condizioni, felpe, giacche ed un sacchetto di viveri per resistere più a lungo durante quello che potrebbe essere un lungo “viaggio nel viaggio”. Si oltrepassa la frontiera di notte, attraversando le aree boschive al confine tra Serbia e Croazia, si cammina, ci si ferma, si riprende il passo appena la foresta sembra non far rumore. Ci si riferma spaventati dalla presenza di forze dell’ordine che setacciano le aree di confine tutta la notte e si cerca di evitare ogni minimo contatto con “l’allarme del bosco” che non sono altro che sensori di calore ed altoparlanti che si attivano appena percepiscono la presenza di un corpo umano in transito. Ali mi racconta tutto questo e me lo racconterà più crudamente il giorno successivo, al suo ritorno dalla frontiera.
«They pushed me back» (Mi hanno cacciato indietro) ed è la quarantottesima volta adesso. «Sono riuscito ad andare ben oltre il confine ma poi, avendo esaurito le mie scorte, mi sono dovuto avvicinare al villaggio più vicino. Credo che, nel vedermi, gli abitanti del villaggio abbiano contattato le forze dell’ordine che da lì a poco sono arrivate per portarmi indietro. Mi hanno fatto salire sulla loro camionetta, ero insieme ad altri quattro amici, e ci hanno portati alla centrale di polizia più vicina. Ci hanno fatto aspettare alcune ore, ritirandoci tutti i cellulari e requisendo il denaro che avevamo appresso. Una volta conclusa la nostra identificazione, ci hanno riportati alla frontiera». «Cioè vi hanno accompagnati qui a Šid?», chiedo io ingenuamente.
«No, ci hanno lasciati a pochi metri dalla frontiera e ci hanno urlato addosso, “Taliban di merda non provate più a tornare qui!” e abbiamo camminato così per altri trenta chilometri. Non so dove siano finiti i miei soldi e questo — mi indica il suo telefono cellulare completamente distrutto — è quello che mi è stato restituito quando ho chiesto dove l’avessero messo».
Questo è ciò che quotidianamente succede ai confini tra Serbia e Croazia, dove i diritti sono sospesi. Non mi do pace, non posso tollerare che la vita di persone sia appesa al filo del destino, che i migranti in fuga non vengano tutelati e protetti e che nessuno si indigni di fronte a questi quotidiani soprusi. Siamo “menti di frontiera” che lasciano passare ed accolgono solo certe “categorie di persone” dimenticandoci che i diritti sono stati scritti e pensati per tutti?
Come ci ricorda Zygmunt Bauman, sociologo e filosofo contemporaneo, «essere morali significa, in sintesi, conoscere la differenza tra il bene e il male, saper tracciare la linea divisoria tra uno e l’altro ed essere in grado di distinguerli quando sono davanti a noi o abbiamo intenzione di compierli. Per estensione, significa anche riconoscere la propria responsabilità nel promuovere il bene e resistere al male».
Rileggo da mesi queste parole, le fisso, le ripeto nella speranza che così facendo si allontani da me la minacciosa presenza di quella che Bauman ha definito come “cecità morale” che, se mi fagocitasse, mi porterebbe ad accettare o, ancor peggio, a non vedere quello che sta succedendo lungo la rotta balcanica ai giorni nostri. Ed io scelgo tutti i giorni di non chiudere gli occhi.
“Giro tondo cambia il mondo”
Lungo la lunga rotta balcanica, nei molti chilometri che ho percorso tra Serbia e Bosnia, ho incontrato moltissimi bambini che, con le loro famiglie, si trovano bloccati fuori dai confini dell’Europa. Ci sono moltissimi bambini, anche molto piccoli, “parcheggiati” nei centri d’accoglienza in Serbia, lungo la frontiera Serbo-Croata e Bosniaco-Croata. Ho impressa negli occhi l’immagine di alcuni di questi bambini che, nella stagione della rinascita, la primavera, un giorno hanno deciso di trasformarsi per alcune ore in supereroi.
Sono usciti dalla struttura del campo di Bogovada, campo governativo gestito, in collaborazione con altre realtà associative, da Croce Rossa sin dal 2011, vestiti da superman, personaggio invincibile dei fumetti. Hanno iniziato a correre nel grande spazio verde del centro, con le braccia in aria ed i pugni chiusi rivolti verso il cielo. Ricordo che c’erano almeno tre supereroi che mi circondavano. Li ho guardati mentre fingevano di volare, aggrappandosi alle altalene del campo, ed ho visto il loro mantello svolazzare dipingendo di rosso i miei occhi.
Ho scattato qualche foto perché, mi sono detto, “loro dovrebbero essere ricordati come i grandi eroi del nostro tempo per la loro tenacia, la loro straordinaria forza d’animo ed invincibile, oltre che incredibile, spensieratezza”. Li ho guardati per molti minuti ed ho pensato alla forza di quello che stavo vedendo, ho sperato fino all’ultimo che, improvvisamente, potessero prendere il volo raggiungendo l’Europa seguendo il soffio del vento.
Sono poi ripiombato nella realtà delle cose ed il sogno si è volatilizzato in un instante. Ho ripreso lucidità di sguardo e mi sono amaramente ricordato che quei bambini vivono inconsapevolmente in un limbo che prima o poi, avrà delle conseguenze violente sulla loro crescita.
Sono stato circondato per tre settimane da bambini saltellanti ed adolescenti sognatori con i quali ho condiviso sorrisi, giochi, lacrime da sbucciature, tiri al pallone e, con pochi di loro, riflessioni sulla vita che verrà. La maggior parte dei bambini che “vivono” nel centro non sono consapevoli di dove si trovano, non hanno gli strumenti per capire il perché sono fermi lì, in un ambiente che risulta come un “non luogo”, ossia un mero luogo di passaggio, uno spazio di transito. Questo mi fa pensare che da ormai molti anni questi bambini vivono senza casa e mi chiedo quanto tempo passerà prima che loro si trovino in un posto sicuro, in un’abitazione scelta insieme ai loro genitori, con i loro giochi sparpagliati sul pavimento ed i loro segni “geroglifici” dipinti sulle pareti di casa. “Quando si troveranno uniti sotto lo stesso tetto con le loro famiglie, al riparo dalle crudeltà del mondo?”, penso continuamente. Queste sono, inoltre, generazioni che rischiano di trovarsi in profonda difficoltà ad affrontare l’inserimento nelle società europee perché si troveranno a ricominciare tutto da capo, un’altra volta. Ci saranno moltissimi ragazzi analfabeti che dovranno affrontare le stigmatizzazioni ed i processi di emarginazione che si scatenano nelle scuole non appena entra nel gruppo “lo straniero”, incapace di leggere, scrivere e pronunciare correttamente le parole. Penso da ormai molti mesi che più passa il tempo e più si rischia di creare alienazione oltre che profondi traumi psicologici in questi bambini che emergeranno e si paleseranno ad un certo punto della loro vita. Chiudo gli occhi per un istante, penso al girotondo che questi bambini stanno affrontando da tempo, e non è il gioco al quale noi eravamo soliti giocare da fanciulli, è un gioco crudele al quale nessun bambino dovrebbe essere sottoposto.
Mi auguro che questo “girare” porti tutti loro in un posto sicuro, ma, sopra ogni altra cosa, mi auguro che ci si accorga in tempo di quello che si sta producendo nel nostro tempo, diffondendo il più tenacemente possibile quello che sta succedendo lungo la rotta balcanica. Forse, raccontandolo ai nostri vicini, colleghi ed amici, unendoci così alle moltissime persone in viaggio e dando vita ad un “girotondo che cambia il mondo”, difenderemo meglio e con coraggio i diritti inalienabili dell’uomo e del fanciullo.
Per saperne di più: www.derev.com/the-game
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 19, NUMERO 3, Settembre 2018