Il viaggio di Dante: un itinerario nell’Amore di Dio
(di Amalia Masset)
Nel settimo centenario della morte del Sommo Poeta, il padre della lingua italiana, non possiamo non parlare di lui e del suo Poema Divino, la cui profonda bellezza non finisce mai di sorprendere l’intelligenza e il cuore di chi vi si accosti.
Una chiave di lettura importante
Non è dato sapere se Dante avesse in mente proprio ogni particolare del suo capolavoro prima di iniziarne la stesura o se alcuni dettagli siano andati definendosi col tempo. Non sappiamo con certezza nemmeno se abbia iniziato a scrivere l’opera prima di essere bandito da Firenze oppure dopo (i commentatori sono ancora divisi al riguardo). Quel che è certo è invece molto altro.
In primo luogo è evidente che si tratta del racconto particolareggiato di un viaggio nei tre Regni dell’Oltretomba che vuol simboleggiare un altro tipo di viaggio, ben più importante; in secondo luogo siamo davanti ad una narrazione che va letta in profondità, oltrepassando l’immagine che le parole disegnano agli occhi della nostra mente (le pene orribili dei dannati, solo per fare un esempio), perché al di sotto di essa si nascondono tesori preziosi, che hanno il potere di trasformare la vita di chi li trovi. Che questa operazione sia non soltanto lecita, ma addirittura indispensabile, è provato dal fatto che l’autore stesso la richiede nella famosa Lettera a Cangrande della Scala ― con la quale dedica il Paradiso al suo amico e benefattore veronese ―, là dove spiega che la Commedia è un’opera dotata di più significati: «(…) Infatti il primo significato è quello che si ha dalla lettera del testo, l’altro è quello che si ha da quel che si volle significare con la lettera del testo. Il primo si dice letterale, il secondo invece significato allegorico o morale o anagogico» ([7] 20). A questo passo segue immediatamente un esempio concreto di lettura, tratto dall’Antico Testamento: il racconto dell’esodo degli Ebrei dall’Egitto, analizzato secondo i quattro livelli appena enumerati (letterale, allegorico, morale e anagogico). Risulta inequivocabile, a questo punto, il criterio da seguire: quello che i Padri della Chiesa, fin dai primi secoli, avevano elaborato per l’esegesi biblica. E, se ciò non bastasse, ricorderemo almeno uno dei punti in cui Dante sollecita i lettori a scoprire quanto si cela sotto… il velo dei versi: «mirate la dottrina che s’asconde/ sotto ‘l velame de li versi strani» (Inf. IX, 62-63).
In cammino verso Dio sulla strada fissata da Lui
Ora che abbiamo chiarito come debba essere letto il Poema Divino, possiamo lasciarci condurre dal Poeta. Precisamente: condurre, poiché lo scopo dichiarato dell’opera «consiste nell’allontanare quelli che vivono questa vita dallo stato di miseria e “condurli” a uno stato di felicità» (Lettera a Cangrande, [15] 39). Parole apparentemente normali, ma oltremodo ambiziose. Ambiziose perché nessun uomo può avere la pretesa di compiere una simile impresa; “normali” perché toccano nella nostra memoria un testo alquanto familiare, che ne attenua la straordinarietà: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv. 15, 11). Queste parole, presenti come in filigrana in quelle di Dante, rivelano che cosa sia la Commedia: il tentativo di dire in forma poetica, e con tutto il sapere scientifico e umanistico di cui egli disponeva, ciò che Dio Padre ha rivelato nel Figlio: il Suo amore infinito e instancabile per ciascun uomo. Si potrebbe dire, in altre parole, che la Divina Commedia è la Bibbia resa in versi.
Certo Dante non compie un itinerario all’interno della propria anima, come quello descritto da S. Teresa di Gesù nel Castello interiore: il suo viaggio si svolge in una dimensione fisica e temporale ben precisa ed esterna a lui. Tuttavia questo percorso, poiché va in qualche modo dall’uomo a Dio, ha delle interessanti analogie con quello descritto dalla Santa di Avila. L’inizio della vicenda, infatti, si colloca proprio nell’anima smarrita del Poeta: la Selva oscura è la condizione metafisica di peccato e di lontananza da Dio, in cui Dante è quasi inconsapevolmente scivolato («io non so ben ridir com’io v’entrai», Inf. I, 10) e dalla quale tenta affannosamente di uscire dirigendosi verso il sole (immagine di Dio), che vede splendere al di sopra di un colle. Quando poi sta per iniziare la salita, trova la via sbarrata da tre fiere: una lonza, una lupa e un leone che simboleggiano, rispettivamente, la lussuria, l’avarizia e la superbia e sarebbero le manifestazioni di Lucifero ― l’anti–Trinità ―, che cerca di sedurre l’uomo per strapparlo all’abbraccio di Dio (si trova un’interessante lettura del I canto dell’Inferno in G. Gorni, Dante nella selva. Il primo canto della Commedia, Parma, Nuova Editrice Pratiche, 1995). Il viaggio, dunque, ha già dei contorni precisi: un uomo sperduto cerca di dirigersi verso Dio, ma ne è impedito da forze superiori alle sue.
Nel momento in cui Dante viene preso dal panico perché non vede via di scampo, compare Virgilio che ― dopo le dovute presentazioni ― gli indica la via della salvezza: «a te convien tenere altro viaggio» (Inf. I, 97). Quel verbo, convien, non ha il significato che siamo soliti attribuirgli, ossia di vantaggio tra due possibilità, ma uno molto diverso: è necessario. Indica quindi una soluzione univoca, senza opportunità di scelta. Ciò significa che Dante non può salvarsi restando sulla strada che ha imboccato, ma deve per forza percorrerne un’altra, quella che Dio ha stabilito, insieme alla guida che gli è venuta incontro. E il poeta latino, che per Dante era stato un vero maestro di umanità e di letteratura attraverso i suoi scritti, lo prenderà per mano e lo condurrà anzitutto nel mistero ― ché tale è ― dell’uomo che rifiuta il suo Creatore: «E poi che la sua mano alla mia pose/ con lieto volto, ond’io mi confortai,/ mi mise dentro alle segrete cose» (Inf. III, 19-21). È qui che comincia il viaggio vero e proprio attraverso l’Inferno che il Poeta ― e noi con lui ― deve compiere per capire com’è fatto il cuore dell’uomo, quali ne siano le debolezze e le tentazioni, quale il desiderio insopprimibile. I dannati che Dante incontra e le pene che soffrono sono come uno specchio in cui egli è chiamato implicitamente a guardarsi per comprendere quanto abbia bisogno di Dio e quanto sia impossibilitato a raggiungerLo con le proprie forze.

Il mistero del libero arbitrio
A questo punto dobbiamo soffermarci un momento per sondare la profondità dell’architettura infernale nella logica esposta sopra. Non sempre si spiegano correttamente la struttura e il significato allegorico della voragine dantesca, che si apre al di sotto di Gerusalemme e termina al centro della Terra, così molti finiscono per pensare che le pene subite dai dannati siano la punizione divina per i peccati che hanno commesso. Ma non c’è niente di più sbagliato: il pensiero di Dante è del tutto diverso. Molti elementi lo confermano, a cominciare dalla scritta posta sulla porta dell’Inferno. Dopo la terzina più famosa ― Per me si va nella città dolente… ― la porta “continua a parlare” dicendo di essere stata creata, prima dell’uomo, dalla SS.ma Trinità (Padre, Figlio e Spirito Santo), mossa a sua volta dalla giustizia: «Giustizia mosse il mio alto fattore:/ fecemi la divina potestate,/ la somma sapienza e ‘l primo amore» (Inf., III, 4-6). Il significato nascosto è molto semplice: l’inferno esiste dal momento in cui Lucifero e gli angeli ribelli hanno rifiutato l’amore di Dio. E, poiché Dio vuole che le creature ricambino liberamente il Suo amore, occorre un luogo nel quale possano esistere tutti coloro che lo respingono. In altre parole, l’esistenza dell’Inferno è motivata dallo sconvolgente rispetto che Dio ha per la libertà dei Suoi figli.
Resta ora da spiegare perché, se le cose stanno così, in quel luogo vi sia tanta sofferenza. Anche qui ci vengono in soccorso numerosi versi danteschi, ma ne sceglieremo due tra i più rappresentativi. Nel II canto del Paradiso, quando il Poeta deve spiegare come lui e Beatrice siano saliti al Cielo della Luna, dice semplicemente che sono stati trasportati dalla sete congenita ed eterna del Regno che ha “la forma di Dio”: «La concreata e perpetüa sete/ del deïforme regno cen portava» (vv. 19-20). L’anima umana è arsa, per sua natura e per tutta l’eternità, dal desiderio di Dio, che l’ha creata per amore ed è perdutamente innamorato di lei. Pertanto, chi decide di sottrarsi al Suo amore non fa che negare a sé stesso l’unica acqua che possa placare quella sete (e qui la memoria corre spontaneamente all’episodio evangelico della Samaritana al pozzo di Giacobbe), condannandosi ad un dolore eterno, la cui intensità lancinante è ben significata dall’orrore di ciò che Dante vede nella sua discesa agli inferi. Non è, dunque, Dio a punire il peccatore che Lo rifiuta, ma il peccatore che relega sé stesso nel tormento senza fine. Dante non afferma esplicitamente questa verità, ma la esprime attraverso l’architettura e le caratteristiche dei luoghi che descrive. Vediamole.
Assenza di Dio, assenza di vita
L’Inferno è il luogo in cui vivono anime avvolte da un’aura sanza tempo tinta (Inf. III, 29), cioè da un’oscurità totale, ove è fermo anche il tempo perché, mancando la luce, non c’è nulla che possa indicarne lo scorrere. Si tratta di un’immagine concreta che spiega, seppure solo ad un occhio attento, quel contrappasso che accomuna tutti i dannati. Infatti, in ciascun cerchio infernale viene punito un peccato diverso mediante la logica del contrappasso, cioè una pena che porta il peccato in questione fino all’estremo e lo perpetua. Solo per fare un esempio tra i più celebri, i lussuriosi, che nella vita terrena si sono lasciati trasportare dalle passioni senza preoccuparsi di dominarle, sono condannati ad essere eternamente sbattuti da un vento tempestoso, che solo di rado si placa. Il peccatore, quindi, è prigioniero di se stesso e delle sue azioni. Oltre a queste forme specifiche di contrappasso, però, ce n’è una aggiuntiva, comune a tutti e più significativa: l’impossibilità di conoscere il presente. Ogni dannato ricorda perfettamente il passato e conosce il futuro, ma lo dimentica a mano a mano che diventa presente. Tant’è vero che Dante chiede spesso notizie sulle sorti di Firenze e le anime rispondono, ma subito dopo sono loro ad informarsi da lui sulla situazione presente della loro città natale. Questa pena terribile non è di secondaria importanza, perché dal punto di vista del simbolismo vuol dire che le anime dell’Inferno sono condannate a non vivere. Tutta la vita dell’uomo, pur sviluppandosi in un arco di tempo che va dalla nascita alla morte, si attua sempre e solo nel presente: è solo lì che si vive, poiché il passato non è più e il futuro non è ancora. Lo dirà bene e con semplicità disarmante, sei secoli dopo, S. Teresa di Gesù Bambino: «Mio Dio, per amarTi non ho che oggi» perché, potremmo continuare, «non vivo che nell’oggi». Chi non vive il presente, in realtà non vive affatto. E i dannati, rifiutando Dio datore di vita, sono creature che si consumano in una condizione eterna di non–vita: l’opposto di quello che il Figlio di Dio ha promesso a coloro che Lo amano.
Eternamente abbracciati dal Padre
A conferma del fatto che non è Dio, in nessun caso, a rifiutare il peccatore, ma è l’uomo ad allontanarsi da Lui, c’è poi un elemento che potremmo definire “geografico”. Dante, sulla scorta dell’astronomo Tolomeo, immagina il cosmo come una serie di sfere concentriche (i nove cieli) che circondano la Terra, situata esattamente al centro di esse. Al centro della terra, poi, sta conficcato Lucifero, che ha il busto nell’emisfero settentrionale e le gambe in quello meridionale. Per disegnare il cosmo dantesco si deve poggiare la punta metallica di un compasso in corrispondenza del corpo di Lucifero e poi tracciare, via via, il profilo dei cieli. Il cielo più esterno, nel quale tutto è contenuto, è l’Empireo, dove sta Dio insieme ai beati. Come non ricordare, a questo punto, il discorso di San Paolo agli Ateniesi? L’Apostolo spiega che Dio non è lontano da ciascuno di noi: «In Lui infatti viviamo ci muoviamo ed esistiamo». Dante, che ben conosceva la Scrittura e cita san Paolo già nel II canto dell’Inferno (vv. 28–33), ha costruito il “suo universo” dando forma a queste parole. Ecco dunque la conclusione sconcertante e commovente che dobbiamo trarre: mentre angeli e uomini ribelli consumano la loro eternità rifiutando e maledicendo Dio, Egli non cessa di essere Padre per loro e se li tiene stretti nel centro del Suo Essere, nel centro del Suo cuore.
Ci può essere una verità più bella?
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 22, NUMERO 3, Giugno 2021