Per la libertà, contro la disuguaglianza

(di Massimo Gelmini)

 

A trent’anni dalla grande protesta di piazza Tienanmen, la Cina – concentrata nel tentativo di recuperare il suo slancio economico e di conquistare un primato a livello mondiale – si trova a fare i conti con il pericolo di una crescente contestazione che, motivata da una richiesta di democratizzazione e maggiore libertà contro la protervia autocratica, esprime un’esigenza di rinnovamento che mette in discussione l’attuale sistema politico ed economico, rischiando di diventare un serio problema per la stabilità interna del Paese. Proprio nei giorni del triste anniversario del massacro che pose fine alla memorabile mobilitazione di massa a Pechino (era il 4 giugno del 1989 quando i carri armati entrarono nella piazza e le truppe aprirono il fuoco per fermare i manifestanti che da giorni la occupavano), ha preso forma per le strade di Hong Kong un movimento di protesta che il regime sta cercando di reprimere da diverse settimane, consapevole di avere i riflettori di tutto il mondo puntati addosso e di non poter ricorrere all’impiego spregiudicato della forza militare come fatto in passato. Tra scontri e sit-in, si allarga il numero di coloro che inermi scendono in strada per partecipare a quella che è diventata un’incontenibile mobilitazione in nome della libertà. Proviamo a spiegare da dove nasce questa crisi e a riflettere sulle ragioni di questo conflitto.

 

 

L’evento scatenante è stata la proposta di approvazione di una legge controversa sull’estradizione voluta dal governo di Pechino. Da alcune iniziali contestazioni isolate è nato un vero e proprio movimento di protesta che ha invaso le strade di Hong Kong improvvisando azioni dimostrative, inizialmente pacifiche, successivamente contaminate da atti di vandalismo e dal coinvolgimento di facinorosi che sono giunti ad assalire la sede del governo centrale e hanno costretto alla chiusura per due giorni l’aeroporto internazionale della città. Non si sono fatte attendere la condanna del governo locale e la repressione dura da parte delle forze dell’ordine, alcuni esponenti delle quali si sarebbero anche infiltrati tra i manifestanti commettendo abusi e violenze. Coloro che protestano chiedono maggiore democrazia e pretendono un’inchiesta sulla presunta brutalità della polizia durante le manifestazioni precedenti. I miliardari di Hong Kong (che è una delle aree più ricche del pianeta, tra le principali piazze finanziarie del mondo, una sorta di paradiso del capitalismo superliberista) chiedono che si ristabilisca l’ordine. E mentre la rivolta si infiamma e i disordini si intensificano, non manca la preoccupazione per un intervento militare da parte di Pechino che ha dimostrato di non riuscire a controllare la crisi, rivelando così un lato debole del Partito e del Paese che non può certo giovare alle velleità espansionistiche e all’immagine internazionale che il Dragone rosso ha ossessivamente cercato di costruire.

Hong Kong, l’altra Cina

Hong Kong — per più di 150 anni colonia britannica, fino al 1997 quando fu restituita alla Cina —pur essendo a tutti gli effetti territorio cinese, ha goduto finora delle prerogative di regione amministrativa speciale, conservando un’autonomia e un’unicità che si realizzano in una valuta propria, in un sistema politico e in un’identità culturale distinti, in un apparato giuridico che ricorda, quanto a trasparenza e rigore, il modello inglese. Molti residenti di Hong Kong (che conta 7 milioni di abitanti, su una superficie di 1.104 chilometri quadrati) non si considerano cinesi, piuttosto “Hong Kongers”, hongkongesi. Vige nella città–stato una costituzione di fatto, nota come Legge Fondamentale di Hong Kong, che garantisce libertà che non sono accessibili ai cittadini del Continente, come le libertà di stampa e di espressione e il diritto di opinione. La Legge Fondamentale — ispirata al principio del diritto consuetudinario dei Paesi anglosassoni — sancisce la salvaguardia dei diritti e delle libertà dei residenti per 50 anni dopo la fine del protettorato britannico e la riconsegna alla Cina (quindi fino al 2047), tuttavia molti residenti lamentano da tempo violazioni di questi diritti da parte del governo centrale di Pechino che, controllando di fatto il sistema politico e rivendicando completa giurisdizione su Hong Kong, ha effettivamente iniziato ad interferire con l’esercizio del potere locale. Questa ingerenza viene percepita come una seria minaccia allo stato di diritto di Hong Kong, in difesa del quale da tempo insorgono diversi gruppi e associazioni di cittadini, con manifestazioni che solo negli ultimi mesi sono diventate particolarmente strutturate e bellicose. Negli anni scorsi, iniziative di protesta studentesche, con azioni di disobbedienza civile e occupazioni prevalentemente pacifiche (la famosa “Rivoluzione degli ombrelli” scaturita nel 2014), avevano scosso l’establishment locale con forti richieste liberaldemocratiche, per una maggiore autonomia e a favore di un sistema elettorale democratico, evitando però, se non in episodi isolati, lo scontro violento. 

Effetti e reazioni della protesta

Il protrarsi della crisi — la più grave da quando la metropoli asiatica è tornata sotto la sovranità cinese — ha provocato pesanti conseguenze sull’economia della città, che non essendo solo principale partner commerciale della Cina continentale, ma centro economico e finanziario internazionale, costituisce un punto di snodo nevralgico per lo spostamento aereo di merci e persone. Secondo gli analisti, sarebbe ingente il danno economico dovuto ai molteplici voli cancellati a causa dei disordini nell’area aeroportuale, e ai divieti imposti dalle autorità aeronautiche cinesi per penalizzare chi offre sostegno o simpatizza per la protesta. 

I funzionari di Hong Kong e Cina hanno criticato aspramente gli insorti, provando inizialmente a censurare la copertura mediatica degli eventi, e poi liquidando la rivolta come terrorismo e i manifestanti come criminali che violano lo stato di diritto e l’ordine sociale. Quindi il governo centrale non si è limitato a censurare e minacciare, ma ha lasciato intendere di voler intervenire militarmente per punire gli insorti e ripristinare l’ordine. Pressoché univoca la reazione dei Paesi occidentali nel denunciare la fallimentare gestione della crisi da parte dell’esecutivo e del governo di Pechino, nel condannare la violenza e incoraggiare un dialogo costruttivo per trovare una via pacifica per il futuro. 

Il mantenimento dell’autonomia di Hong Kong, e in particolare della sua piazza commerciale, è un fatto che la comunità internazionale non accetterebbe di mettere in discussione. D’altra parte, i piani di Pechino sembrano chiaramente orientati verso una sempre maggiore integrazione di Hong Kong nella Cina continentale. L’incertezza che grava sul futuro di Hong Kong e le incognite sulle reali intenzioni di Pechino riguardo al destino dell’isola sono alla base delle tensioni in corso in questi mesi. Ma le dinamiche del conflitto sono complicate e investono anche questioni più profonde che riguardano problemi comuni ad altre realtà capitalistiche fortemente globalizzate.

Le ragioni della crisi

La mobilitazione, iniziata a marzo 2019 ma divenuta massiccia solo dall’inizio di giugno, è stata innescata dall’opposizione diffusa a un disegno di legge sull’estradizione (successivamente sospeso e poi definitivamente ritirato a settembre a causa della forte contestazione) che, se approvato, avrebbe potuto essere usato per reprimere il dissenso conducendo a esiti illiberali. Da qui si è poi ampliata in una vera e propria ribellione motivata dalla richiesta di democrazia e dalla pretesa di giustizia contro le brutalità commesse dalla polizia durante le manifestazioni di strada per respingere e disperdere la folla. 

Le ragioni di chi manifesta, un movimento spontaneo che non fa riferimento ad una guida unica, ad un leader riconosciuto, sono varie e diversificate, ma è chiara la convergenza su alcune questioni fondamentali, quali, a parte il ritiro del disegno di legge incriminato, le dimissioni del governatore Carrie Lam (espressione del governo di Pechino e ritenuta subalterna alla politica cinese), l’avvio di un’inchiesta sugli atti della polizia, il rilascio dei manifestanti arrestati e la concessione di maggiori libertà democratiche. Alcuni di questi argomenti sono stati spiegati e diffusi su volantini redatti in più lingue (tra cui inglese, francese, coreano e giapponese) distribuiti all’inizio di agosto all’aeroporto di Hong Kong, divenuto temporaneamente teatro di scontro, obiettivo chiave della rivolta, ma anche potente vetrina scelta abilmente dagli attivisti per catturare l’attenzione di media e visitatori di tutto il mondo. 

La strategia organizzativa di questi gruppi di protesta — basata su molteplici veloci aggregazioni spontanee (spesso coordinate tramite applicazioni di messaggistica che, per evitare l’intercettazione da parte della polizia, non sfruttano la rete ma si avvalgono di connessioni di prossimità) e non riconducibile ad una struttura gerarchica — sembra il punto di forza della contestazione, che ha conosciuto nelle settimane un’adesione sempre più ampia, non più solo com’era inizialmente di giovani e studenti, ma allargata a persone di ogni età, professione e ceto sociale. 

Questi cittadini che dal basso, con coraggio, intuizione e destrezza, osano ribellarsi e sfidare il gigante hanno già ottenuto una prima vittoria. Non solo perché una parte delle loro richieste è stata accolta (per quanto in modo marginale e tardivo) ma soprattutto perché nella difficoltà hanno saputo riappropriarsi di un ruolo civile contribuendo al formarsi di una sorta di ricomposizione sociale e al rafforzarsi di una nuova cultura antiautoritaria che va oltre le semplici richieste liberaldemocratiche, giungendo a criticare la disuguaglianza provocata dagli eccessi del capitalismo superliberista e dalle concentrazioni finanziarie e tecnologiche. Il divario sociale fomenta la protesta, che viene alimentata anche dal disagio collettivo e dalla frustrazione giovanile per la precarietà degli sbocchi professionali e l’indisponibilità di alloggi a costi accessibili.

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 20, NUMERO 3, Settembre 2019