Digitale e politica
(di Alessio Musio)
Per capire come l’ambiente digitale stia modificando profondamente non solo la nostra vita personale ma anche il suo rapporto con la politica e la democrazia, può essere utile partire da un film che ci parla di un tempo lontano e per questo in apparenza privo di legami con la situazione politica del nostro tempo.

Nel bellissimo film Le vite degli altri (2006) si racconta di come nella Germania comunista la vita delle persone fosse meticolosamente controllata dalle spie della Stasi (Ministero per la sicurezza di Stato). Il film mostra, in particolare, come le vite di un drammaturgo e della donna da lui amata siano violentemente sconvolte da un sistema che fa della scomparsa di ogni segretezza e intimità il fine stesso della sua esistenza.
Nella vicenda narrata, non solo la vita politica dei protagonisti, ma anche quella più quotidiana, fatta di lavoro, conversazioni, amori, pensieri ad alta voce e frasi estemporanee o poco elaborate, si trova a essere tracciata e setacciata. Il tutto senza alcun pudore per le miserie dell’animo umano che divengono, invece, un materiale prezioso per qualsiasi progetto di controllo politico che assecondi i fini del più insignificante dei funzionari di partito oltre a quelli più generali dello Stato.
Ma se la vita della Repubblica Democratica Tedesca (DDR) viene restituita cinematograficamente nella sua crudezza e violenza, la vicenda assume tracciati inaspettati quando proprio colui che è incaricato di spiare la coppia, un uomo solo e senza una vita privata, comincia un po’ alla volta a rimanere avvinto, in modo commovente, non solo dalla bellezza possibile dei rapporti umani, ma anche dell’arte, della letteratura e del teatro, aspetti dell’esistenza a lui sino a quel momento sconosciuti.
Il limite del potere politico
Senza svelare la trama quasi poetica del film – accentuata dal fatto che l’attore protagonista sarebbe morto poco dopo aver vinto l’Oscar per il suo ruolo di spia che si innamora della vita e dell’uomo –, si può dire che Le vite degli altri mostri come il limite che deve appartenere a un sistema politico, per essere davvero rispettoso della dignità umana, passi dalla difesa e dal rispetto dell’intimità e del segreto personali. Perché, contrariamente a uno slogan oggi in effetti diffuso, non tutti i segreti sono bugie, nella misura in cui indicano uno spazio fondamentale che deve essere preservato. Non è un caso che in tedesco la parola Geheimins – “segreto” appunto – contenga in sé il sostantivo Heim, che significa casa, vale a dire quel luogo che custodisce, fa crescere e riposa proprio perché è anche sottratto allo sguardo altrui.
“Serbare e custodire nel segreto del proprio cuore”, del resto, è un compito tanto più prezioso quanto più importante è la posta in gioco che lo riguarda – come ha insegnato, una volta per tutte, più di duemila anni fa la storia di una giovane madre…
Sin qui abbiamo parlato di un film, ma il tema è così decisivo dal punto di vista etico-politico da essere diventato fondante per l’identità stessa della democrazia tedesca: dopo l’unificazione delle due Germanie, infatti, non solo viene concesso a ogni cittadino di consultare tutti gli archivi della Stasi che potessero avere materiale a suo riguardo, ma viene sancito a livello costituzionale il diritto di conoscere chiunque detenga informazioni su persone che non conosce direttamente e quali siano le informazioni in suo possesso. Di qui l’idea fondamentale di una democrazia liberale, in virtù della quale, per essere preservate nella loro alterità e umanità, le vite degli altri debbano restare protette dagli sguardi di chi non ha titolo per avervi accesso.
Che cosa accade, però, oggi? Come è stato notato, l’ambiente digitale in cui viviamo ha reso di fatto impossibile rispettare e far valere un simile diritto.
Nessuno spionaggio, solo un ambiente digitale
Viviamo, infatti, in un tempo completamente diverso da quello della DDR, in cui per avere accesso alle informazioni più intime non serve un sistema capillare di spionaggio, perché basta navigare in rete e accedere ai diversi social network.
Così, mentre prima la dissoluzione del segreto avveniva per l’invasività di un sistema politico tirannico e coercitivo, ed era subìta come un incubo, oggi essa accade per il volontario e compiaciuto auto-denudamento che i cittadini della società liberale digitale quotidianamente fanno, narrando – attraverso la condivisione di pensieri, video, foto, discussioni – anche cose di cui molto spesso non sono in grado di parlare alle persone in carne ed ossa in cui si imbattono e con cui devono vivere.
In alcuni soggetti, anzi, il compiacimento nell’auto-denudamento è così esplicito che di fatto si conosce tutto della loro vita: come vanno le loro giornate, il loro lavoro, le loro performance sportive e i loro rapporti amorosi; le cene, il numero delle volte in cui sono andati in un certo posto e persino quello in cui hanno abortito – nel marasma dei dati tutto appare infatti livellato e senza spessore –; quando e perché hanno pianto, la forma delle loro librerie e più in generale delle loro case, quella dei loro letti e dei loro bagni, gli entusiasmi e le indignazioni politiche; il giudizio senza appello che hanno nei confronti di colleghi, familiari e conoscenti e persino dei loro figli, di cui ovviamente abbiamo a disposizione video e foto sin da neonati, ecc.
Tutto pubblico, tutto disponibile allo sguardo di chiunque, nel segno della libertà: la libertà del like, dell’approvazione, dell’indignazione, del commento, inclusa la libertà di guardare e sapere.
La frontiera che attraversa il rapporto tra politica e digitale passa, dunque, attraverso questo ribaltamento che rende oggi un fenomeno della libertà (il volontario denudarsi) ciò che prima era subìto come strumento di coercizione e violenza (nella forma dello spionaggio).
La risposta che di solito si dà a queste considerazioni è che in fondo in tutto questo non c’è niente di male. Eppure, la tesi di chi ritiene di non avere nulla da nascondere – tesi che perde per strada la distinzione tra segreto e bugia – coincide con il destino triste di chi, alla fine, prima o poi deve pur scoprire di non avere nulla di importante e di prezioso da custodire e curare, non foss’altro che la sua stessa persona e vicenda.
Per capire come l’ambiente digitale stia modificando profondamente, però, la nostra vita, e con essa anche il suo rapporto con la politica e la democrazia, si deve fare un passo in più.
L’emergere del capitalismo della sorveglianza
Nell’ambito digitale la scomparsa del segreto e dell’intimità non avviene, infatti, solo per la quantità e la qualità delle cose che decidiamo di condividere, facendo entrare quotidianamente nelle nostre vite e “case” centinaia, e in alcuni casi migliaia, di sconosciuti. Perché l’infrastruttura alla sua base tiene conto di tutto ciò che facciamo, anche al di là della nostra libertà.
Si sente dire, a volte, che aziende come Facebook, Twitter ecc. sono multinazionali che fanno profitto sulla nostra vita. Questa affermazione è vera, ma va ben oltre ciò che liberamente decidiamo di concedere loro in nome della comodità, della velocità e del compiacimento che ci concedono.
Ogni volta che interagiamo con la rete, infatti, postando qualcosa – una foto, un video, o effettuando una ricerca – non ci limitiamo a scrivere il testo di cui siamo consapevoli e autori. Perché connesso a questo primo testo, ve ne è un secondo, definito testo-ombra, di cui non sappiamo nulla ma che è in grado di identificarci quasi senza margini di errori. Ci si è arrivati quando i ricercatori incaricati dalle grandi aziende di lavorare sulla mole dei dati che ogni giorno generiamo, hanno scoperto che più importante ancora delle nostre stesse ricerche e condivisioni è ciò che è loro sotteso.
Il profitto delle aziende digitali è cresciuto, infatti, in modo inarrestabile quando queste hanno scoperto che non è importante il fatto in sé che oggi abbiamo avuto voglia di ascoltare una determinata canzone, ma ciò che gli è collegato: l’errore di ortografia con cui ne abbiamo digitato il nome, perché quell’errore dice della nostra persona e istruzione; o il fatto che siamo stati portati ad ascoltare quella determinata musica dopo aver cercato o esserci imbattuti nel post o nel profilo di una determinata persona, ecc. Non il selfie che abbiamo deciso di postare, ma le foto che abbiamo scartato, i pensieri che non abbiamo condiviso dopo averli a lungo digitati, le accelerazioni del battito del nostro cuore quando guardiamo determinati contenuti o video (basta indossare uno smartwatch e incrociare i dati), il modo con cui le nostre pupille si muovono di fronte a determinati contenuti che ci vengono proposti su piattaforme come Instagram proprio perché pensati per catturare la nostra attenzione, e via dicendo, senza dimenticare che dispositivi che fanno ormai parte del nostro quotidiano, come Alexa, protocollano e monitorano ogni istante della nostra esistenza, al di là della nostra attenzione.
Insomma, mentre scriviamo consapevolmente un testo, ne creiamo, senza saperlo, un secondo che, come spiega l’autrice de Il capitalismo della sorveglianza, parla di noi, ma non è per noi, e nello stesso tempo riesce a coglierci come nessuno strumento di spionaggio politico era mai riuscito a fare, nella misura in cui il profitto del capitalismo della sorveglianza consiste in ogni ambito, dall’acquisto di un paio di scarpe alla politica, nella capacità di prevedere, e così condizionare, il nostro comportamento futuro.
Indagare adeguatamente questo fenomeno sarebbe complesso, ma per capire il nodo del rapporto oggi tra digitale e politica diventa necessario almeno far risuonare con forza due domande.
Se la prima chiede come abbia fatto l’incubo totalitario dell’abolizione dell’intimità e di ogni segreto a diventare qualcosa di realizzabile oggi in modo tanto quotidiano e banale, la seconda deve prima o poi portarci a interrogarci se sia compatibile, con il senso profondo della democrazia, la trasformazione delle nostre preziose esperienze personali in una volgare materia prima di dati a disposizione delle infrastrutture tecnologiche che ormai governano con dolcezza le nostre vite.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 23, NUMERO 3, Settembre 2022