(di P. Antonio Maria Sicari o.c.d.)

Tempo cristiano

L’annuncio cristiano è fortemente segnato dalla coscienza di una sorprendente novità che ha fatto irruzione nel tempo. Si parla ripetutamente di “nuova alleanza”, di “nuova creazione”, di “uomo nuovo”: il tutto portato e realizzato da Cristo (“nuovo Adamo”). San Paolo può gloriosamente affermare: «Se uno è in Cristo è una creatura nuova, le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove» (2 Cor 5,17, cfr. Gal 6,15). E si tratta di una novità che il credente deve continuamente assimilare “rinnovandosi di giorno in giorno” (2 Cor 4,16), “spogliandosi dell’uomo vecchio e rivestendosi del nuovo” (Col 3,10; Ef 4,22).

Ma non si tratta soltanto di un impeto morale di rinnovamento; si tratta anzitutto di riconoscere che nello scorrere del tempo lineare è entrata “una pienezza”: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge perché ricevessimo l’adozione a figli, E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: “Abbà! Padre!”. Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio» (Gal 4,4-6). Con i misteri della Sua vita divino-umana (incarnazione, passione, morte e resurrezione) Gesù ha segnato “una volta per tutte” (Ebr, 10,10) il centro del tempo, dando compimento a tutto ciò che lo aveva preceduto, ma aprendo anche uno spazio di senso e di accoglienza per tutta la storia futura.

Lo ha espresso bene T.S. Eliot nei suoi Cori della rocca: «Quindi (gli uomini) giunsero in un momento predeterminato, / un momento del tempo e nel tempo, / un momento non fuori del tempo, ma nel tempo, / in ciò che noi chiamiamo storia: / sezionando, bisecando il mondo del tempo; / un momento nel tempo, / ma non come un momento di tempo. / Un momento nel tempo,/ ma il tempo fu creato attraverso quel momento: / poiché senza significato non c’è tempo, / e quel momento di tempo diede il significato».

Si è trattato, perciò, di un “momento nel tempo” (storicamente databile e documentabile), la cui diversità e assoluta centralità non è consistita nel fatto che gli uomini siano riusciti a forzare l’eternità penetrando in essa o sfuggendo alla linearità del tempo, ma nel fatto che l’Eterno lo ha voluto misericordiosamente abitare “in forma umana”.

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Tempo mistico, tempo “carmelitano”

Ma se è vero che la linearità del tempo non è stata spezzata, è altrettanto vero che, penetrando in un frammento di tempo, con assoluta serietà divino-umana, l’Eterno ha spalancato in esso delle immense profondità che possiamo definire “sacramentali”: seminando la sua Parola e la sua Grazia nel mondo intero, Gesù ha in qualche modo “infinitizzato” ed “eternizzato tutto”, al punto che può avere destino eterno perfino “un bicchiere d’acqua dato nel suo nome” o l’umile invocazione di un morente che può soltanto invocare misericordia. Ma ci sono anche altre profondità vertiginose che potremmo definire “mistiche” nelle quali certi santi hanno avuto il dono di poter penetrare. Bisogna però precisare attentamente che il significato propriamente cristiano della mistica è appunto questo: poter contemplare e abitare le profondità del reale, scavate da Dio stesso. I Santi Mistici Carmelitani ci hanno lasciato, al riguardo, testimonianze molteplici e affascinanti, che qui possiamo solo elencare.

“Muero porque no muero!”

“Muoio perché non muoio” è il celebre grido dell’anima che è risuonato appassionatamente nel cuore dei due grandi Riformatori del Carmelo, quando toccarono i primi vertici della loro ascesa spirituale. A un certo punto della loro vita, ambedue si sentirono talmente colmati d’amore, da credersi ormai prossimi all’incontro definitivo con lo Sposo Divino, che avevano lungamente cercato, tanto da non capire perché mai Dio indugiasse tanto a prenderli con Sé, nella patria beata. Sull’argomento possediamo due diverse poesie: una composta da S. Teresa d’Avila (intitolata Desiderio del cielo) e una di S. Giovanni della Croce (intitolata Strofe dell’anima che soffre per il desiderio di vedere Dio). E ambedue concludono le otto strofe (di sette versi ciascuna) col ritornello: “muero porque no muero”. Come Teresa vivesse questa struggente attesa di “vedere Dio” ce lo ha confidato lei stessa: «Nel sentir battere l’orologio io trasalisco di gioia perché vedo di avere un’ora in meno di vita, di essermi avvicinata di più al momento di vedere Dio» (Vita, 40,20). Ma sappiamo pure che questo desiderio si alternava in lei – già da molti anni – col desiderio di vivere a lungo pur di poter servire Cristo nelle sue membra doloranti. Quest’alternanza (tra il desiderio di concludere l’esistenza terrena e quello di prolungarla in piena e totale disponibilità ai voleri di Dio) le era diventata abituale da quando aveva “scoperto” il tempo della Chiesa che viveva allora il dramma della lacerazione protestante e quello della violenta “conquista” del nuovo mondo. Aveva allora compreso che il Cristo Risorto continuava a soffrire nel suo corpo ecclesiale ed eucaristico, ed ella voleva partecipare al dramma del suo Sposo. Scriveva nel 1560: «A volte mi assalgono desideri di servire Dio con impeti così travolgenti da non poterne dare un’idea adeguata. Vivissimo è il mio dispiacere nel sentirmi incapace di realizzarli. Mi sembra allora che affronterei volentieri qualsiasi prova od ostacolo, perfino la morte o il martirio… Ho l’impressione di voler gridare per far capire a tutti quanto sia importante non accontentarsi di poco nel servizio di Dio» (Rel 1,4). Così, proprio nell’ultima fase della sua vita, Teresa d’Avila subirà un’ulteriore maturazione, tanto da non desiderare più né di vivere né di morire, ma solo di compiere la volontà di Cristo su di lei, senza discostarsene in nulla: una suprema e mistica “indifferenza” che è l’esatto contrario dell’apatia, ed è cioè la totale donazione del proprio tempo (con le sue virtualità) al Dio sommamente amato.

L’esperienza di San Giovanni della Croce fu in parte diversa, perché segnata da nove mesi di incredibili sofferenze: nove mesi di carcere in condizioni assolutamente disumane, tali che avrebbero dovuto distruggerlo psicologicamente e spiritualmente, ma che egli visse “liturgicamente”, come “attesa sponsale”, ottenendo la grazia di diventare uno dei più grandi poeti d’amore. I poemi d’amore che egli allora compose descrivono necessariamente un tempo segnato dall’assenza e dall’attesa struggente, ma la sua “Notte oscura” è anelito verso l’alba che sta per spuntare, e indica con assoluta sicurezza il cammino verso l’incontro amoroso che sta per accadere.

Il suo Cantico Spirituale e la sua Fiamma viva d’amore sono invocazioni rivolte alla Presenza Amata che sta per svelarsi in tutta la sua travolgente Bellezza: “Scopri la tua Presenza…” – “Rompi la tela a questo dolce incontro”… E Giovanni della Croce diventerà il Maestro di coloro che sanno quanto sia insaziabile la fame del cuore umano (se non è Dio a nutrirlo) e quanto siano incolmabili le caverne dell’anima (se l’Infinito non le riempie). Ma è anche il Maestro che insegna a legare i frammenti della propria esistenza (perfino “un filo di paglia”, purché “raccolto da terra con amore”) all’eternità.

L’ «oggi» di S. Teresa di Gesù Bambino

Soltanto per oggi è il titolo di una lunghissima poesia della Santa di Lisieux che insegna a camminare verso l’Eterno, spingendo nel Suo cuore tutti i frammenti di tempo. Ma il metodo che suggerisce non è solo quello tradizionale (si potrebbe dire “ascetico”) di chi rinuncia a trattenere l’«attimo fuggente» per offrirlo a Dio, ma quello di chi vuole trattenere nell’attimo (più precisamente “nell’oggi”) tutta l’eterna ricchezza di ciò Dio gli regala. Ecco alcuni esempi: “Dammi il Tuo sorriso per un giorno solo, per oggi, per oggi!”; “Coprimi con la Tua ombra, e non sia che per oggi!”; “Dammi il Tuo amore, conservami la tua grazia, e sia per oggi!”; “Gesù, dammi un posto nel Tuo cuore, per oggi, per oggi”; “Scendimi in cuore, Gesù, ostia mia bianca, e sia per oggi”.

Per Teresa di Lisieux questa è la maniera realistica di camminare verso l’“oggi eterno”. Allo stesso modo, e per lo stesso motivo, ella ha insegnato la cura e la valorizzazione di tutte le “piccole cose”, sia pure transitorie, consapevole che Gesù può valorizzarle infi nitamente e per l’eternità. In una lettera alla sorella Celina spiegava così il suo punto di vista: «Santa Teresa d’Avila dice che “occorre tener vivo l’amore” (Vita 30,20). La legna non è alla nostra portata quando siamo nelle tenebre, nelle aridità; ma non dobbiamo forse gettarvi almeno delle pagliuzze? Gesù è certamente abbastanza potente per tener vivo il fuoco da solo, tuttavia è contento di vederci mettere qualcosa che lo alimenti: è una delicatezza che Gli fa piacere e alla fine Egli getta nel fuoco molta legna. Noi non Lo vediamo, ma sentiamo la forza del calore dell’amore. Ne ho l’esperienza quando non sento niente, quando sono incapace di pregare, di praticare la virtù: è allora il momento di cercare delle piccole occasioni, delle cose da niente che fanno piacere, più piacere a Gesù dell’impero del mondo o perfino del martirio sopportato generosamente: per esempio, un sorriso, una parola amabile quando avrei desiderio di non dire nulla o di avere l’aria annoiata, ecc., ecc. Mia Celina diletta, capisci? Non è per fare “la mia corona”, per guadagnare dei meriti, è per fare piacere a Gesù!… Quando non ho occasioni, almeno voglio dirGli spesso che L’amo. Non è difficile e questo tiene vivo il fuoco, quand’anche potesse sembrarmi spento; in questo fuoco d’amore, vorrei gettare qualcosa e Gesù allora saprebbe ravvivarlo bene» (Lt 122, del 18 luglio 1893).

Una “contemporaneità” molto particolare

I Santi hanno sempre compreso ed esperimentato la necessità di rivivere, nell’oggi della Chiesa e nella propria stessa carne, i misteri di Cristo. E sappiamo che Gesù ha il potere di irrompere nel presente, in forza della sua Risurrezione. Abbiamo, infatti, la Sua promessa di “essere con noi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Ma ci sono sante carmelitane (vere “sorelle nello spirito”) che non si sono accontentate di invocare e vivere la presenza di Gesù nel loro presente, ma hanno voluto “forzare il tempo” (per così dire) anche riportando se stesse al “tempo di Gesù”. Si tratta di due esperienze mistiche di particolare bellezza, espresse soltanto in forma di preghiera: quella vissuta da S. Teresa del B. G. e quella vissuta dalla Beata Elisabetta della Trinità. La loro “contemporaneità con Cristo” non fu solo quella di chi “partecipa oggi” alle sofferenze di Gesù (sulla scia dell’insegnamento dell’Apostolo che si sentiva “crocifisso con Cristo”), ma quella di chi sa d’essere stato coinvolto da sempre. Così un giorno Teresa decise di cantare, a perdita di cuore, il mistero che aveva intuito componendo una lunghissima poesia (in 33 strofe!), che intitolò significativamente: “Gesù ricordati!”. Nel testo, ella volle ripercorrere tutta la vita del Salvatore, non chiedendo a se stessa di ricordare i misteri della vita di Cristo, ma chiedendo a Gesù di voler ricordare che lei – la piccola Teresa – era sempre stata implicata nelle Sue vicende divino-umane. Teresa non teme di scrivere: «Con la piccola mano carezzavi Tua madre/ e sostenevi il mondo e gli davi la vita. / Tu pensavi a me… Ricordatene!» (P 24,6). Se narra che Gesù non aveva dove posare il capo, Gli dice subito: «Vieni in me a riposare… / Vieni, la mia anima è pronta a riceverTi»(24,8). Se Lo vede accogliere i bambini, Gli dice: «Voglio anch’io ricevere le Tue carezze» (24,9). Se descrive l’episodio della Samaritana, aggiunge: «Io sì, io conosco chi è Colui che mi chiede da bere!» (24,10). Se racconta che Gesù ha promesso l’acqua viva, Teresa subito si intromette: «Io ho sete, o mio Gesù» (24,11). E la poesia continua descrivendo minuziosamente tanti episodi evangelici che sembrano affollarsi alla mente e al cuore di Teresa, ed ella sistematicamente trova “il posto” in cui inserirsi e partecipare. Ma quando, finalmente, racconta l’agonia nel giardino degli ulivi, allora esprime addirittura la certezza di averLo già allora consolato, con l’offerta verginale della propria esistenza; e aggiunge con incredibile forza evocativa: «Tu mi hai visto, Gesù… Ricordatene!» (24,21).

Teresa ricordava le “parole d’amore” che Gesù le aveva detto in tutti i tempi e i luoghi della sua incarnazione. Ma pretendeva che anche Gesù ricordasse di averla vista e ascoltata, già allora! Non siamo forse, per Lui, unici al mondo? Come si vede, siamo ancora nell’ambito della contemporaneità mistica (cioè, “misteriosa e profondamente reale”), ma perfino tale contemporaneità è azione di Cristo: non siamo noi ad attrarLo nel nostro oggi, è Lui che ci ha attratti nel Suo tempo, e ci ha accolto nei Suoi eventi: co-protagonisti unici, come è unico l’amore che Egli porta a ciascuna anima.

Anche la B. Elisabetta della Trinità comprese fin da giovane che ogni sofferenza è esclusivamente un avvenimento d’amore, e che il dolore ha sempre lo scopo di collocare la nostra anima ai piedi della Croce. E tuttavia c’è nei suoi scritti giovanili un testo quasi profetico, di una straordinaria intensità, che ella scrisse sull’onda di un fresco e devoto entusiasmo. Era l’anno 1899. Elisabetta stava partecipando alla lunga “missione cittadina” predicata a Digione da un Padre Redentorista. Ed ecco che, il giovedì mattina 9 marzo, si trovò ad ascoltare una predica su “La penitenza”, con opportuni richiami al severo messaggio di Lourdes. Il predicatore aveva insistito sul fatto che la vita di Gesù “non era stato altro che una lunga agonia” e aveva poi riportato esempi di penitenza dati da numerosi santi. Elisabetta ne prende nota sul suo Journal. Poi gli appunti diventano un torrente di preghiera: «O mio Dio,… io desidero tanto soffrire, (…), ma solo per consolarTi, per ricondurTi delle anime, per provarTi che Ti amo. (…). Ti ho donato il mio cuore, un cuore che non pensa e non vive che per Te, un cuore che Ti ama da morire». Le espressioni sono calde e tradizionali. Ma ecco che a un tratto dalla sua penna esce un grido stupefacente con cui ella si rivolge al suo Gesù con la fresca baldanza di una fidanzata che è impaziente di occupare il suo posto di Sposa al fianco dello Sposo, per poter tutto condividere: «Non voler più soffrire senza di me!». Elisabetta non pensa, come Teresa, di essere già stata lì a soffrire assieme, da sempre, ma pensa quasi che Gesù le abbia fatto un torto a soffrire senza di lei, un torto che deve essere subito “riparato”! Sono follie d’amore che non vanno giudicate dalla nostra fredda razionalità, ma assecondate nel movimento che imprimono alla nostra anima.

Un’ultima “effrazione del tempo”

Per concludere, ricordiamo, con simpatia tutta carmelitana, altre due “effrazioni temporali” vissute con assoluta libertà di spirito da S. Teresa d’Avila.

La prima accadde nel momento decisivo della sua conversione, quando non riusciva a capire perché mai si sentisse “perduta” e “colpevole”, anche se non aveva gravi peccati da rimproverarsi. Determinante fu allora l’aiuto di un giovane confessore gesuita che le insegnò ad esaminare la sua coscienza non dal punto di vista del male fatto o dei peccati commessi, ma dal punto di vista del “futuro”: «Che sapevo io se, per tramite mio, Dio non intendeva fare del bene a molte persone? Aggiunse poi altre cose con le quali sembrava profetizzare quel che Dio avrebbe successivamente fatto nei miei confronti e concluse che mi sarei addossata una grande colpa, qualora non avessi corrisposto alle grazie elargitemi da Dio. Ebbi insomma l’impressione che in lui parlasse lo Spirito Santo venuto a curare la mia anima» (V 23,16).

La seconda le accadde nella piena maturità, quando si sentiva il cuore addolorato per i tanti anni passati senza dare a Dio una piena risposta d’amore: «Oh, con quanto ritardo si sono accesi i miei desideri e come Voi, Signore, Vi siete invece adoperato per tempo a chiamarmi perché mi dedicassi tutta a Voi!» (El 4,1). E si angustiava perché tutti le dicevano che il tempo passato (“perduto”) non poteva più essere recuperato.

Pregava allora così: «Voi siete potente, gran Dio. Questo è il momento di capire se la mia anima si inganni quando, pensando al tempo perduto, afferma che in un attimo Voi, Signore, potete farglielo riguadagnare. Forse vaneggio, perché siamo soliti dire che il tempo perduto non si può ricuperare. Sia benedetto il mio Dio! Oh, Signore! Riconosco la Vostra divina potenza. E se Voi siete potente, come in realtà siete, cosa c’è d’impossibile a Colui che può tutto? Vogliate, dunque, Signore mio, vogliate! (…). Ricuperatemi, Dio mio, il tempo perduto concedendomi la Vostra grazia per il presente e per il futuro, affinché compaia davanti a Voi con la veste nuziale perché, se lo volete, lo potete» (El 4,1-2).

In conclusione, alla luce di questa ampia e preziosa panoramica che i Santi ci consentono, possiamo semplicemente affermare che il tempo raggiunge le sue “profondità mistiche” quando è vissuto, in ogni frammento, come “tempo dell’amore eterno”.

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 17, NUMERO 2, Giugno 2016