Segnali di svolta o scosse prima del tracollo?
(di Stefania Giorgi)
Dal 17 Ottobre scorso il Libano è stato scosso da un’ondata di proteste innescate dall’ennesima scelta impopolare di riversare sui cittadini, attraverso le tasse, il peso di una situazione economica sempre più insostenibile. Un episodio che ha però fatto esplodere tutto il malcontento che, soprattutto le nuove generazioni, stanno provando nei confronti di un sistema politico incapace di affrontare i gravi problemi del Paese e preoccupato solo di mantenere il consenso e non perdere la posizione di potere che mantiene uguale da anni

Un malessere antico
La rivolta popolare in corso da mesi in diverse regioni del Libano è il risultato di decenni di malgoverno a livello centrale e locale. Dopo la fine della guerra civile nel 1990, il Paese ha cercato di risollevarsi applicando, tuttavia, il vecchio sistema di governo di tipo confessionale instaurato nel 1943 all’alba dell’indipendenza, che ha reso i cittadini prigionieri di logiche clientelari asfissianti. Negli ultimi trent’anni infatti i libanesi hanno vissuto secondo regole di separazione confessionale (cristiani, sciiti, sunniti, drusi..) che, nate dal compromesso politico di dover assegnare un ruolo di potere a ciascuna delle parti in gioco, non hanno fatto altro che tenere divisa strumentalmente la popolazione, creando barriere e alimentando i conflitti. Una democrazia confessionale (ma sarebbe meglio forse parlare di “feudalesimo” moderno) finisce per creare settarismi continui perché costringe, di fatto, i cittadini a rivolgersi alla propria parte religiosa (incarnata in un partito specifico) solo per vedere riconosciuti i propri diritti, o per avere risposte, per ottenere favori, agevolazioni, vie preferenziali. Alla fine i meccanismi settari di distribuzione del potere sono diventati strutturali.
Tutti i settori vitali sono da tempo trascurati, obsoleti, malridotti a causa della corruzione o della negligenza, compromessi dagli attacchi dei Paesi confinanti che del Libano hanno spesso distrutto o sfruttato e manipolato le risorse.
Possiamo parlare delle infrastrutture energetiche (la più grande centrale elettrica, a 30 km da Beirut, bombardata da un raid israeliano nel 2006, oltre ad aver creato un devastante danno ambientale, non è mai stata ricostruita e il Paese è costretto a comprare energia e carburante, eppure ogni giorno l’elettricità manca comunque dalle 3 alle 12 ore e nemmeno l’approvvigionamento idrico è garantito), della viabilità (non esiste una rete ferroviaria, né un servizio di trasporto pubblico), della sanità (ospedali e cliniche sono private e per farsi curare occorre avere un’assicurazione, cosa che quindi esclude tutti quelli che non possono permettersela), della gestione e tutela dell’ambiente (non esistono collettori o sistemi di raccolta e l’immondizia resta nelle strade, ma anche le spiagge e il mare sono inquinati perché tutto viene riversato senza controllo sulle coste), per arrivare al sistema scolastico e all’accesso al mondo del lavoro (l’istruzione di qualità è quella privata, quindi accessibile ai ricchi, mentre i settori lavorativi sono controllati dalle fazioni politico-religiose che li dominano).
Nonostante i proclami e le promesse, ripetute ad ogni cambio di governo, lo stato libanese non ha saputo investire i capitali, anche quelli concessi da molti partner europei, per dare una vera svolta all’economia e ridare equilibrio e speranza ai suoi cittadini, risolvendo i numerosi problemi che rendono la vita di ogni giorno un percorso a ostacoli.
Le élites politiche non hanno interesse a cambiare questo modello di funzionamento sociale e sono diventate ingorde di consensi e soldi, paralizzando un Paese nelle spire della corruzione e obbligando intere generazioni di giovani ad emigrare.
Il debito pubblico è ormai alle stelle, il quarto al mondo, tanto che il Governo che si è appena insediato a Gennaio 2020 ha avuto, da poche settimane, un incontro urgente con il Fondo Monetario Internazionale: per evitare l’inevitabile tracollo finanziario (come quello della Grecia) il prestito, se e quando verrà concesso, costerà moltissimo in termini di austerità economica che, ovviamente, pagheranno proprio le fasce deboli e la classe media che, a stento, tiene in piedi il Paese.
Scomodi vicini
Purtroppo non sono solo le scelte politiche interne a gravare sul quadro nazionale, ma anche le forze esterne che da tempo si contendono un territorio-cuscinetto molto strategico.
È davvero difficile restituire con brevità il contesto geopolitico molto complesso che vede il Libano, a causa della sua storia e della sua posizione geografica, al centro di uno scenario che difficilmente, o forse mai, gli consentirà di trovare una vera indipendenza e autonomia. Troppi gli interessi, e troppo vicini i protagonisti del quadro mediorientale che definiscono la stabilità o l’instabilità di tutta la regione: Siria, Iran, Iraq, Israele, Turchia.
Pur avendo circa le dimensioni dell’Abruzzo, il Paese è sempre stato appetibile per molte ragioni, a partire dalle sue coste che si affacciano sul Mediterraneo. Ma è soprattutto la stretta tra Siria e Israele ad essere per il Libano una morsa fatale che lo rende preda e vittima, allo stesso tempo intenzionale e senza colpa, di mire altrui, di strategie internazionali che si svolgono altrove, ma che ne lacerano il tessuto sociale. Due vicini ingombranti e su opposti fronti che hanno determinato, e ancora influenzano, il suo destino.
La presenza palestinese costituisce da sempre una spina nel fianco, e ormai costituisce uno stato nello stato (anche perché spesso ne prende il posto quando da risposte, lavoro e sicurezza là dove mancano): nato come “partito di Dio”, Hezbollah è stato causa di scontri, guerre e odio, ma ultimamente ha saputo proporre di sé un’immagine apparentemente meno minacciosa e ormai ha trovato riconoscimento anche come interlocutore legittimo nell’agone politico, pur rimanendo a tutti gli effetti una milizia paramilitare. Un paradosso incomprensibile per la nostra concezione di democrazia, ma che restituisce bene la complicata natura della politica in Medioriente.
Nelle ultime elezioni del maggio 2018, Hezbollah ha conquistato la maggioranza dei seggi del Parlamento e tiene in pugno il Governo, forte delle mutate condizioni demografiche del Paese che vedono la popolazione musulmana superare in termini numerici quella cristiana, in calo vertiginoso da decenni. Alleato fondamentale della Siria di Bashar al-Assad, Hezbollah è la lunga mano dell’Iran sul Libano che rappresenta il limite occidentale del cosiddetto “arco sciita”.
Per questo motivo Israele vede nel Libano una costante minaccia da tenere a bada, anche in maniera arbitrariamente violenta nei confronti della popolazione che nulla a che fare con Hezbollah, mentre, al contrario, la Siria l’ha sempre considerato una parte di territorio perduto da recuperare sotto il proprio dominio per realizzare il progetto panarabo della Grande Siria.
La situazione però si è ribaltata quando è esplosa la guerra siriana nel 2011: a causa del conflitto l’ondata migratoria improvvisa verso il Libano ha creato una delle peggiori crisi umanitarie, dovendo dare accoglienza a quasi 2 milioni di profughi (su una stima di 6 milioni di abitanti). L’impatto sociale ed economico è stato e continua ad essere devastante, vista la situazione pregressa, oltre ad acuire problemi culturali e identitari tra le due popolazioni. Questo non fa altro che accrescere l’incidenza di povertà tra la popolazione libanese e generare ingiustizie sociali. Si stima che, da quando è iniziata la crisi siriana, 200.000 libanesi siano caduti in povertà aggiungendosi ai già numerosi poveri presenti nel paese (1 milione). Oltre a questi, da 220.000 a 320.000 cittadini libanesi hanno perso il lavoro, la maggior parte di essi giovani senza qualifica professionale. Stanno aumentando i casi di libanesi disperati che comprano passaporti falsi siriani per cercare di emigrare in Europa via mare.
Rispetto ai profughi, il Governo libanese non vuole stabilire una concreta linea decisionale e si dimostra molto altalenante nei suoi interventi, per paura di vivere una nuova “questione palestinese”. E intanto la situazione peggiora, soprattutto nei campi profughi che, più che in Turchia e in altre aree dove gli sfollati sono bloccati, si trasformano in inferni a cielo aperto.
Proteste inedite
Quello che ad Ottobre ha scatenato le contestazioni è stato l’annuncio di nuove imposte sui prodotti ad alto consumo, tra cui tabacco e benzina, a cui poi si è aggiunta la proposta di tassare la messaggistica come quella di WhatsApp, nonostante lo Stato tragga già ampi profitti da tariffe telefoniche tra le più care nella regione. A differenza però di altre ondate di proteste socio-economiche e politiche che periodicamente si sono verificate negli ultimi quindici anni, questo “autunno caldo” sarà ricordato per l’ampiezza geografica della mobilitazione e la sua trasversalità comunitaria e ideologica.
Cittadini di ogni estrazione sociale e religiosa sono scesi in piazza in manifestazioni senza precedenti che hanno superato le barriere confessionali, di classe e regionali, uniti dalla richiesta di dimissioni non solo del Governo, ma di tutto il fronte politico. Già al secondo giorno di contestazione, i manifestanti hanno cominciato a caratterizzare le loro azioni, non orchestrate dai partiti, come una rivoluzione, mettendo in discussione anche i leader delle fazioni più intoccabili e raggiungendo anche quelle città periferiche e quelle regioni dove un’azione pubblica di questo genere era considerata impossibile.
Per la prima volta le proteste hanno contestato lo status quo politico settario che, già prima della guerra civile, aveva ampiamente riciclato le stesse facce (o i loro parenti e discendenti) in Parlamento, nel Governo e nelle posizioni chiave del settore civile e militare. La questione dell’abolizione del sistema confessionale è stato, se non il tema principale, sicuramente quello più discusso: settarismo e corruzione sono due fenomeni correlati, e la piazza ha chiesto la fine di entrambi.
Il patriarca maronita Bechara Raï, il 23 ottobre, si è espresso a nome del Consiglio delle autorità cristiane e di tutte le Chiese cristiane del Libano invitando i giovani a perseverare nelle loro rivendicazioni per uno Stato più giusto e meno settario. Anche Papa Francesco, domenica 27 ottobre, a seguito dell’Angelus, ha rivolto un “pensiero speciale al caro popolo libanese, in particolare ai giovani” i quali, da diverso tempo, hanno “fatto sentire il loro grido di fronte alle sfide dei problemi sociali, morali ed economici del Paese”.
Quali prospettive?
Lo shock iniziale che ha perfino portato alle dimissioni, in Novembre, del primo ministro Hariri, è stato seguito però da una strategia di delegittimazione dei manifestanti: il potere cerca infatti di resistere al cambiamento, si compatta e adotta delle tecniche per stancare chi protesta, anche infiltrando elementi esterni o cercando di manipolare la rabbia attraverso proclami provocatori o fake news, screditando la base, o anche usando il pugno di ferro e alzando il livello della repressione e della violenza.
I giovani non hanno ceduto, ottenendo in poco tempo (per gli standard libanesi) un nuovo Governo, sebbene ancora più sbilanciato in favore di Hezbollah: nonostante nomi nuovi, più presenze femminili e promesse rinnovate, i cittadini hanno però mostrato di non credere alla svolta, interpretandola come un’operazione di maquillage, rivolgendo la loro rabbia anche verso le banche che, fortemente legate al potere politico, sono accusate di mettere a repentaglio la sopravvivenza economica dei cittadini libanesi avendo limitato dal novembre scorso la possibilità di ritirare contanti dai loro sportelli. Il tetto massimo, fino alla fine di gennaio fissato a 200 dollari a settimana, all’inizio di febbraio è stato ulteriormente ristretto a 200 dollari ogni due settimane, ed è stato reso impossibile trasferire denaro all’estero, cosa che risulta essere devastante perché l’80% delle famiglie hanno figli che studiano o parenti che vivono fuori dal Libano.
Il tasso di cambio dalla lira libanese al dollaro, che è la valuta principale con cui il Paese gestisce quasi tutte le transazioni commerciali, è schizzato a quasi il doppio in pochi mesi, provocando un insostenibile aumento dei prezzi di tutte le merci e i servizi. Inutile dire che si è registrata una fuga di capitali e che gli investitori non sono propensi a credere ad una prossima stabilità economica e sociale.
Insomma la bancarotta è dietro l’angolo e il dolce Paese dei cedri è una polveriera in grado di destabilizzare un’area già troppo in bilico. La speranza è che, nonostante i segnali di fallimento, si palesi un sostegno finanziario internazionale per non permettere un tracollo che minaccerebbe equilibri molto al di là dei confini libanesi.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 21, NUMERO 1, Giugno 2020