Incontro con Marta Bellingreri

(a cura di  Miriam Sartorio e Ornella Rietti)

Venerdì 4 febbraio scorso, nei locali dell’Abbazia di Rodengo Saiano, si è tenuto un incontro organizzato da Punto Missione e Casa Delbrel dal titolo L’indifferenza uccide. Marta Bellingreri, giornalista freelance e reporter, ci ha raccontato la sua esperienza lavorativa e di come è arrivata a scegliere questo lavoro. Riportiamo di seguito il racconto semplice e nello stesso tempo straordinario della sua storia.

Cara Marta,  raccontaci dell’inizio,  di quando e come hai scelto la tua professione.

Uno dei momenti che ricordo sempre all’origine di questo mio percorso di vita risale a 20 anni fa, all’ottobre 2001, quando a scuola frequentavo il liceo classico. Il 9 ottobre 2001 il nostro professore di latino entrò in classe, dicendo: “Oggi non faremo lezione”.  Era serissimo e ha pronunciato parole che hanno cambiato totalmente la mia vita. Il motivo per cui non voleva fare lezione era perché quel giorno, circa un mese dopo l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre, gli Usa avevano invaso l’Afghanistan. Come sappiamo questa occupazione  è durata 20 anni e non ha risolto né i problemi né è andata a guardare all’origine, alle cause che l’hanno generata. Il professore ritenne importante parlare di quello che stava succedendo.  Lo ricordo come un momento chiaro e rivelatore: abbiamo speso un’ora intera a parlare. 

Tre anni dopo, quell’avvenimento ha segnato la mia scelta universitaria. Ho deciso di studiare la lingua e la cultura araba, la storia del Medio Oriente e Nord Africa contemporanei.  Certamente anche il fatto di essere nata e cresciuta a Palermo ha influenzato la mia scelta. La domanda di quegli anni è sempre stata: “Perché il mondo vede come nemiche una cultura e una storia che hanno saputo costruire così tanta bellezza architettonica?”. A tale bellezza ero abituata perché la mia scuola era accanto alla cattedrale costruita in stile arabo-normanno. Desideravo capire perché si dicesse che esistesse uno scontro di civiltà.  

Cominciando a studiare arabo, ho poi intuito che mi sarebbe piaciuto entrare nel mondo del giornalismo, ma il percorso non è stato così lineare. Per molti anni ho lavorato come traduttrice, come mediatrice culturale, come coordinatrice di progetti in Organizzazioni non Governative. Ho continuato nella ricerca accademica con un dottorato, fino a quando, cinque anni fa, ho deciso di dedicarmi al racconto attraverso la mia attività di giornalista e di scrittrice. 

Nei tuoi libri leggiamo di una donna pronta a partire e a viaggiare con ogni mezzo, a offrire una parola buona o a conoscere chi incontra. Emerge la passione all’incontro con l’altro nei semplici momenti di vita quotidiana. Alcuni incontri sono diventati racconto, storia, frutto di una relazione duratura nel tempo. Leggendo questi racconti colpiscono la sfrontatezza nel fare il passo verso una cultura diversa dalla nostra e il coraggio di una relazione familiare, costruita a partire da telefonate o dialoghi personali. Come e perché è nata in te la passione alla relazione con l’altro e al racconto di “storie” di vita?

Soprattutto nel 2011, anno della rivoluzione in Tunisia e dell’arrivo di moltissime persone da Paesi diversi – questo flusso non si è mai fermato-  ho lavorato come traduttrice di arabo a Lampedusa con i minori non accompagnati: io preferisco chiamarli ragazzi, come faremmo con i nostri, e non minori. Una delle regole da rispettare era che in un rapporto professionale e lavorativo non si doveva dare il proprio numero di telefono. Allora ho cominciato io a prendere i numeri di telefono delle famiglie dei minori non accompagnati che vivevano in Tunisia e in altri Paesi del mondo. Questi numeri di telefono hanno creato una geografia delle relazioni. Sono andata a rintracciare le storie all’origine. C’erano famiglie che spesso rimanevano nell’incertezza, nella paura per i loro figli in questi viaggi; qualcuno partiva anche all’insaputa dei genitori. Al di là delle avventure e disavventure dei ragazzi ciò che mi ha guidato nella geografia delle relazioni era capire cosa ci fosse all’origine delle partenze. Ho scoperto che non è mai soltanto un malessere economico (nella maggior parte dei casi sì) o di altra natura (motivi politici) a mettere in viaggio le persone, ma qualcosa di più profondo: il desiderio di libertà, di  movimento,  di incontro.  In tutte le relazioni ciò che mi ha sempre colpito e insegnato di più è stato capire chi aspetta dall’altro lato, nei Paesi di provenienza. L’incontro si è disegnato man mano,  attraverso i rapporti instaurati con le famiglie che mi chiedevano notizie, novità, aggiornamenti. Telefonare, mettermi in contatto è stato il mio modo di creare una connessione, una relazione con le persone. 

Entriamo  nel cuore di questo nostro incontro: condividere con te storie di vita. Raccontaci storie di incontri significativi in cui hai voluto fare un passo d’amore verso l’uomo e verso la vita, verso uomini che hanno nazionalità e culture diverse dalla nostra. 

La storia di Tarek

Vi leggo lo stralcio di una lettera che ho ricevuto per Natale. La parte che leggerò è in italiano, poi Tarek mi scrive in arabo e mi racconta della sua infanzia, dei suoi amici, di come l’evento che l’ha coinvolto, ha segnato la sua vita.

“Cara Marta, come stai? 

Spero che stai bene. Anche tutta la tua famiglia. Io sto bene. Grazie a Dio. Ti manda saluti anche  la mia famiglia. Per primi mio papà e mamma.  Ringrazio per la tua lettera. Io sto sempre bene quando mi sei vicina. Mi aiutate solo tu e il mio avvocato. Non voglio nessuno vicino a me perché sono tutti falsi e bugiardi. Io non sono un ragazzo cattivo, io non sono un assassino e un criminale. Perché quando parlano di me sui giornali parlano male di me. Però c’è Dio con me. Ci sarà il giorno della verità. Vedremo quando arriverà questo giorno. Adesso ti mando un grande abbraccio. Ti voglio tanto bene sorella. Grazie per la tua lettera. Spero che faremo un colloquio insieme. Va bene. Adesso ti mando un bacio. Mi mandi la tua foto se si può?

Il tuo fratellino Tarek.”

Tarek è un ragazzo libico di 26 anni. Si trova in carcere da 6 anni ed è accusato di essere responsabile della morte di persone che viaggiavano con lui durante la strage di ferragosto nel Mar Mediterraneo nel 2015. Ho parlato diverse volte con la famiglia in Libia e con la sua avvocata. 

Tarek era un calciatore e aveva firmato un contratto con una squadra di calcio libica. Dopo lo scoppio della guerra civile in Libia, lui e alcuni amici hanno deciso di partire per  continuare la carriera sportiva. Purtroppo questo viaggio, che poteva essere l’inizio di una nuova vita, è stato la loro rovina perché sulla barca sono morte asfissiate 49 persone. E’ scattata un’indagine e loro sono stati ritenuti responsabili: a quanto pare Tarek era seduto vicino alle persone morte sottocoperta e  alcuni testimoni (solo 7 in stato di shock ascoltati dalla Polizia su un totale di 350 passeggeri) lo hanno dichiarato colpevole. In tribunale non c’è stato nessun riconoscimento e quindi l’avvocata parla di un processo farsa. Io ho ricostruito a grandissime linee una storia.  E’ una situazione molto grave. Noi non lo sappiamo, ma ci sono centinaia di casi  simili al suo in cui, senza una vera indagine, ma solo sulla base di poche indicazioni, spesso subito dopo l’arrivo di una barca o di un salvataggio in mare, alcune persone vengono additate come scafisti, cioè persone che conducono le barche. La maggior parte di queste persone si ritrova a guidare la barca solo per sopravvivere, per andare avanti in mare, ma non fa parte delle reti criminali. I veri  trafficanti e le loro reti sono ben saldi in Libia. L’anno scorso in un report chiamato “Dal mare al carcere”, fatto da associazioni di Palermo e internazionali, si sono messi insieme tutti questi casi in cui molto spesso sono finiti in carcere pescatori o ragazzi che non c’entrano niente con le reti criminali. 

Io e alcuni amici  abbiamo pensato di avviare uno scambio epistolare con Tarek e gli altri ragazzi per far sentire loro la nostra vicinanza. Gli invio anche cartoline da varie città italiane per fargli fare un piccolo viaggio in un Paese che non ha mai potuto conoscere perché dalla barca è andato direttamente in una cella. 

Ho voluto condividere questa storia proprio perché con un gesto così piccolo non posso cambiare le sue sorti giudiziarie, ma il desiderio è che queste persone sappiano che non sono sole. E’ un’accoglienza a distanza che si attua con lo scambio di lettere. 

La storia di Chris

Vi propongo il testo del canto Mama Africa, dove Chris Obehi racconta la storia della sua Africa e del suo viaggio per sbarcare in Europa, parlando di malinconia e di ingiustizia, ma anche di pace, amore e fratellanza tra tutti i popoli della Terra. 

Simbi yahweh /Simbi yahnaah /Simbi yahweh mama Africa /So listen now,listen to the children voices, /so listen now, listen to the nation calling /do you remember when they came to our land /with their ships and their bomb and their guns /and their plagues and their chains and their cages? /Say we don’t need to war just to make us stronger /but we just need to love each other better 

Simbi yahweh Simbi yahnaah /Simbi yahweh mama Africa /Senegal, Gambia, Mali, Togo, Congo, Cameroon, /South Africa, Nigeria…

Musica e testo © Chris Obehi (2019)

Ebbene, ora ascolta! Ascolta le voci dei bambini /Ebbene ora ascolta! Ascolta la voce della nazione. /Ricordi quando loro vennero nella nostra terra /con le loro navi, le loro bombe, /i loro fucili e la loro invasione, /le loro catene e le loro gabbie? /Dìllo! Non abbiamo bisogno di fare la guerra solo per dimostrarci più forti! /Ma abbiamo bisogno di amarci di più gli uni gli altri.

Scopro la storia di Chris tramite internet. E’ un africano che canta perfettamente in siciliano. Al di là del video che ho visto, ne ha fatti molti altri. Proviene dalla Nigeria e ha affrontato un lungo viaggio. Dalla Nigeria è arrivato in Libia.  Poi è giunto in Sicilia. Nei primi tempi è stato in una casa di accoglienza, poi per un anno intero presso una famiglia siciliana e lì ha conosciuto le canzoni in lingua siciliana. Quando a poco a poco è diventato indipendente, passando anche da altri centri di accoglienza, ha cominciato tramite youtube a cantare le canzoni, è stato notato e ha intrapreso una carriera artistica e musicale. Chris afferma di venire da una famiglia musicale della Nigeria. E’ fuggito da persecuzioni e da molte incertezze. Ha scelto di lasciare il Paese, ma ha trovato molte difficoltà nell’ottenere il visto. Quest’anno, dopo 6 anni da quando è arrivato in Sicilia, per la prima volta è potuto tornare in Nigeria. Nel frattempo ha registrato un album con le sue canzoni. Si è sposato e ha due gemelli. 

Ci hai raccontato due storie significative, in un certo senso positive.  Davanti ad altre storie, finite in modo diverso, non ti è mai capitato di pensare: “Ho sbagliato a fare il passo in più, a donare la mia esperienza, a rischiare un pezzetto della mia persona nell’incontro con l’altro?” 

Non mi ricordo una storia di delusione in particolare. Credo che ce ne siano state, ma non riesco a focalizzare una persona che mi abbia ferita o delusa in tutti questi anni. La sensazione forte che ho è, invece, la paura di deludere. Senza volerlo la mia presenza può scatenare false promesse. Io non posso mai promettere nulla. Sono una giornalista, sì, ma una semplice cittadina. Al massimo mi è capitato di scrivere lettere di invito. Ad esempio, ad agosto ci siamo trovati a scrivere diverse lettere per provare, attraverso diverse ambasciate, a far viaggiare le persone da Kabul verso l’Italia o la Francia o l’Australia… proprio nei giorni in cui l’aeroporto era assalito. Nel mio specifico caso sono riuscita a far partire un giovane afghano con la moglie per Parigi. Spesso la presenza del giornalista può far scatenare il desiderio che le cose possano cambiare, immaginando  che basti la denuncia, ma non è così. 

Il giornalismo può anche creare tantissimi danni. C’è un forte bisogno che si torni a raccontare le storie di geo-poetica delle persone, come dice un mio collega, e non di geo-politica. Il nostro desiderio è quello di portare all’attenzione e di riuscire a fare risplendere le storie.

La tua esperienza è un’esperienza di apertura, di rischio e di sfrontatezza. Quali pratiche puoi suggerire per incoraggiarci nell’incontrare l’altro e per guardarlo in modo non indifferente, con uno sguardo nuovo?

Partendo dal mio percorso di vita la prima buona pratica nell’incontro con l’altro, ma non soltanto, è imparare la lingua (nel mio caso specifico l’arabo). Conoscere la lingua è la chiave che apre una porta, un ponte che attraversa e unisce un castello che da vuoto diventa abitato. In questi 16 anni la gioia, il cambiamento, lo stupore di chi incontra un bianco e occidentale europeo che ha imparato    la lingua sono stati grandi. 

Sapere la lingua cambia la natura dell’incontro. E’ importante imparare le lingue straniere, non solo inglese e francese. La parola si libera direttamente nell’incontro delle persone e cambia l’atmosfera. Potrebbe far parte di un modello educativo questa scelta. 

Inoltre nel mio lavoro  ho cercato di creare un giornalismo della prossimità. Penso si possa trasporre e tradurre tantissimo nel lavoro dell’educazione e dell’accoglienza. Prossimità non significa semplicemente vicinanza. Vicinanza non è integrazione: nell’integrazione è come se ci fosse un blocco in cui gli altri devono entrare, integrarsi; la prossimità è unire e allargare il cerchio, dove si mantiene uno spazio di comunità in cui può avvenire l’integrazione. L’idea di allargare il cerchio per creare prossimità è un’altra buona pratica.

Hai la possibilità di guardare la nostra cultura da più angolature. Quali aspetti del nostro modello educativo ritieni possano essere cambiati e migliorati? Puoi aiutarci a portarci dentro il punto di vista degli altri, ad entrare in questo cerchio di prossimità?

Non ce ne accorgiamo realmente, ma tuttora, nonostante le difficoltà e le diffidenze, nonostante le frizioni e i sentimenti di paura, in realtà  ciò che io percepisco da chi ha avuto la fortuna di arrivare in Italia e incontrare una realtà come, ad esempio la vostra Casa Delbrel, è che si sente veramente accolto. E’ bellissimo come l’Italia venga percepita come il Paese dell’accoglienza! Io penso che dentro ci sia non solo una spontaneità, ma una serie di valori che si trasmettono. Di recente ho parlato con una famiglia siriana che avete conosciuto perché è diventata famosa per la foto di un papà e figlio, entrambi mutilati, senza gambe. Ho parlato con il papà, il bambino che ha 5 anni e con la mamma (hanno anche altre due bambine). Sono stati accolti dalla Caritas di Siena, la città dove la foto ha vinto il Premio internazionale. Hanno un sentimento di gratitudine, si sentono accolti. Si sentono in famiglia tanto che la mamma mi diceva che aveva paura di arrivare in un Paese dove si sarebbe sentita in esilio, con sentimenti di estraniamento per distanza dalla Siria, ma si è accorta che non è così. Mi ha espresso un sentimento di cura reale, forte, contenente il significato a tutto tondo della parola. Penso che lei, in pochissime settimane, abbia davvero sperimentato la cura fisica (cura della malattia), la cura educativa (i bambini vissuti sotto i bombardamenti non sono mai andati a scuola), la cura nel modo semplice di relazionarsi e tutti gli altri aspetti della cura. Impariamo ad allargare il termine di cura dall’ambito familiare a tutti gli aspetti della vita.

Per concludere vorrei riflettere con voi su quelli che definiamo “crimini contro l’umanità”. 

In Germania il 13 gennaio scorso è accaduto un evento importantissimo: un funzionario del Governo siriano è stato  giudicato colpevole di torture, omicidi, stupri di detenuti nella famigerata sezione 251 ed è stato condannato per crimini contro l’umanità. Questa sentenza deve essere spiegata.

E’ la prima volta nella storia che un ex-ufficiale del regime siriano, al potere da 50 anni e negli ultimi 10 anni  responsabile della maggior parte dei crimini, delle uccisioni, dei bombardamenti sulla città di Aleppo, viene condannato all’ergastolo in Germania. Prima di lui solo un uomo di basso rango era stato condannato. Queste persone sono arrivate in Germania come rifugiati dicendo di aver lasciato il regime, dichiarando di aver fatto parte dei servizi di sicurezza siriani, ma di avere poi lasciato il Paese cercando rifugio. Grazie a tantissime persone, ma soprattutto ad avvocati e avvocatesse siriani è partita la raccolta di testimonianze di tutti i sopravvissuti di quel dipartimento.

Questa sentenza non ha solo importanza storica (la guerra in Siria continua, ci sono gruppi che compiono crimini orrendi).  L’umanità siamo tutti noi e allora è come se tutti i crimini fossero stati compiuti contro ciascuno di noi. Ci rendiamo conto che ogni volta che c’è un crimine contro l’umanità, anche se accade a centinaia di km di distanza da noi, è un crimine contro tutti?  In ogni singola persona che porta nella sua carne i segni di questi crimini siamo stati colpiti inconsapevolmente anche noi. Oltre a interrogarci sulla violenza che c’è nel mondo che ci invita a non restare indifferenti, pensiamo a questa umanità violata perché forse lì c’è anche un pezzettino di noi. Possiamo portare nell’incontro con l’altro anche un pezzo della loro ferita perché siamo tutti parte della stessa umanità.

Marta_BellingreriMarta Bellingreri, nata a Palermo il 26 marzo 1986, giornalista freelance e ricercatrice indipendente, ha un dottorato di ricerca su questioni di genere in Medio Oriente. Pubblica regolarmente reportage, audio-documentari e inchieste dal Medio Oriente e dalla Sicilia per testate italiane e internazionali quali L’Espresso, Il Venerdì, Stern, Al-Jazeera, National Geographic, Radio 3, Radio Svizzera Italiana e Francese e altre. È autrice insieme a Giusi Nicolini, del libro-intervista Lampedusa. Conversazioni su isole, politiche e migranti (Edizioni Gruppo Abele, 2013) e del reportage narrativo Il sole splende tutto l’anno a Zarzis (Navarra Editore, 2014). Ha partecipato al film Io sto con la Sposa e lavorato come assistente alla regia per il film documentario Sponde e ad altri documentari sulle migrazioni per la BBC. Ha lavorato a progetti fotogiornalistici per Medici Senza Frontiere in Giordania e Solidarités Internationales in Siria. Nel 2019 ha vinto il premio internazionale Maria Grazia Cutuli come giornalista siciliana emergente. Vive e lavora tra la Sicilia e il Medio Oriente.