Cosa è in gioco nella guerra in Ucraina

Intervista ad Adriano Dell’Asta

(a cura di Massimo Gelmini)

 

 

Poche settimane fa sono stati insigniti del premio Nobel per la Pace dall’Accademia di Stoccolma tre soggetti individuali e collettivi che devono essere stati rilevanti nella storia della dissidenza sovietica e post-sovietica. Sono Ales’ Bjaljacki, avvocato bielorusso che si è distinto per la sua attività con il centro Vjasna e noto per l’incarcerazione di coscienza subìta a causa della sua opposizione a Lukašenko in Bielorussia. Memorial, probabilmente la realtà che lei conosce meglio, e infine il Centro per le libertà civili, un’associazione umanitaria ucraina. Quale significato secondo lei ha questo premio Nobel, nel presente e per il futuro della guerra, anche in relazione alle possibili candidature alternative tra le quali spiccavano nomi di personalità più coinvolte politicamente. Cosa hanno fatto questi soggetti e perché il riconoscimento è importante? 

Il premio dato a queste tre entità ha un’importanza assoluta. In primo luogo perché si tratta di una scelta che supera ogni possibile confusione politica. Naval’nyj avrebbe tranquillamente meritato il premio Nobel per la pace – per quello che ha fatto, per la dedizione e il senso della responsabilità o del sacrificio, per l’evidente preferenza per un’opposizione non violenta – ma una scelta a suo favore sarebbe stata facilmente interpretata in chiave politica. Al contrario, premiando Memorial, Bjaljacki e questa organizzazione per i diritti umani ucraina si è evitata ogni possibilità di riduzione politica, fatta salva ovviamente la malafede dei commentatori. Perché il riconoscimento va a dei testimoni, gruppi di persone, che si sono distinti per la difesa dell’umano, come è assolutamente evidente nell’opera di Memorial. Secondariamente, la scelta di attribuire il premio a personalità di tre Paesi diversi – Russia, Bielorussia, Ucraina – ha il senso di un richiamo alla lotta comune per la libertà e per l’identità personale, perché quello che è in gioco in questi Paesi, e nella guerra attuale, al di là di tutte le questioni politiche e geopolitiche, è la possibilità per l’uomo di vivere una vita piena nel senso della libertà e nel senso della conservazione della memoria. Memorial ha sempre fatto questo, ma lo stesso Bjaljacki ha iniziato la sua attività da dissidente insistendo sulla questione della memoria, occupandosi della salvaguardia del ricordo di queste incredibili fosse comuni che si trovano attorno a Minsk, le fosse comuni di Kuropaty, di cui noi non conosciamo con esattezza il numero di morti, perché le cifre si basano su stime parziali, ma in cui si ritiene siano finiti da un minimo di trentamila a un massimo di centomila morti. Se vogliamo prendere sul serio questo premio, e raccoglierne la sfida, dobbiamo rimettere al centro l’uomo e cominciare a pensare che quello che sta succedendo alle persone che sono lì, che soffrono e lottano, è una questione che riguarda tutti.

Quale risvolto potrebbe auspicabilmente avere questo riconoscimento per le sorti del conflitto?

Le persone che vivono in questi tre Paesi dovrebbero rendersi conto che la lotta è comune e che richiede un coordinamento. Allo stesso tempo, è auspicabile che l’Europa capisca finalmente – alcuni l’hanno capito, altri fanno finta di non capirlo o non vogliono capirlo – che in gioco c’è il recupero della centralità dell’uomo. So che può sembrare un discorso astratto, ma il dissenso è stato questo. La storia dell’Unione Sovietica ci insegna che il dissenso, da un punto di vista politico, ad un certo punto – alla fine degli anni Settanta, con le Olimpiadi di Mosca e il cosiddetto “terrore pre-olimpico” – era stato assolutamente sconfitto. In modi diversi, i dissidenti principali erano stati incarcerati o allontanati – mandati all’estero, in esilio o al confino (è esemplare da questo punto di vista il caso del grande fisico Andrej Sacharov, pure lui insignito in seguito del premio Nobel per la pace). Anche nella successiva fase di distensione, essi sembravano tagliati fuori. Poi arrivò Gorbačëv, una figura che non abbiamo mai preso sul serio fino in fondo, che inizialmente non voleva cambiare il regime, non aveva nessuna intenzione di uscire dal comunismo, di abbattere l’Unione Sovietica. Voleva semplicemente fare andare meglio le cose. Voleva rinnovare – il termine usato era perestroika, cioè non cambiare, bensì ristrutturare – e per fare questo aveva ripreso una parola d’ordine, che tutti ricordiamo, glasnost’ (trasparenza), che era esattamente la parola d’ordine dei dissidenti, ricorrente nel primo libro di Sacharov e nella prima grande manifestazione di opposizione del dicembre 1965. Gorbačëv, riprendendo questa parola d’ordine non sua, coscientemente o meno, mise in moto un movimento grazie al quale il mondo di quegli anni è cambiato. Ed è cambiato senza colpo ferire. Anche qui noi ce lo siamo dimenticati, ma l’avere puntato sull’uomo – il dissenso ha fatto questo – ha permesso un passaggio non violento.

Tornando a Memorial, si parla tanto della loro opera, ma in che cosa consiste esattamente il lavoro di raccolta delle testimonianze storiche e di custodia della memoria che il Centro ha svolto?

Memorial nasce qualche tempo prima della fine dell’Unione Sovietica, nel 1989, per opera di un gruppo di storici e di attivisti per i diritti civili, con il contributo fondamentale di Sacharov, che concepiscono l’idea della necessità di fare memoria di quello che era successo sotto il regime comunista e dare un giudizio affinché questo non accadesse più. Iniziano a raccogliere documenti e testimonianze (necessarie per interpretare questi documenti), tracce di una vita che è esistita, che è stata interrotta in maniera innaturale e che si è voluto cancellare. Quindi ancora una volta il centro è la persona, che è un valore assoluto e come tale va trattato. Sviluppano anche un metodo rigoroso, una procedura scientifica per gestire questi materiali: dietro ogni documento ci doveva essere una realtà precisa e verificata, a costo di sottostimare l’effettiva entità del fenomeno indagato, ma con la coscienza che il lavoro di ricerca riguarda delle persone. Inizialmente raccolgono i materiali che reperiscono in quanto storici e per esperienza personale, essendo essi stessi passati attraverso il tritacarne del totalitarismo. Con il tempo scoprono di essere diventati punto di riferimento per la gente che, venuta a conoscenza dell’associazione, inizia spontaneamente a portare le proprie testimonianze, oggetti, lettere, a volte anche solo per disfarsi di cose vecchie e inutili o per paura di conservarle in casa propria, ma comunque riconoscendo che c’è un luogo dove la memoria del passato del Paese viene raccolta e custodita. Così il lavoro di Memorial prosegue e cresce, grazie soprattutto al contributo di volontari e di persone passate dal dissenso o dalla reclusione nei campi di concentramento.

Diversi nostri ragazzi hanno svolto la propria tesi lavorando sugli archivi di Memorial. Un aneddoto che mi piace ricordare riguarda uno studente che mentre faceva la sua ricerca, avendo difficoltà a decifrare e interpretare la scrittura di alcune lettere di detenuti su cui stava lavorando, appartenenti all’archivio, chiese aiuto e gli fu affiancata una collaboratrice, un’anziana signora di nome Susanna, che solo al termine del lavoro di trascrizione scoprì con sorpresa essere proprio l’autrice di una di quelle lettere. A quel punto le rivolse una domanda: «Lei è andata dentro perché leggevate delle poesie. Vi avevano impedito di leggerle perché la cosa non era stata organizzata dal partito. Ma non vi rendevate conto che il vostro comportamento poteva essere pericoloso?». Ed era effettivamente pericoloso. Si era all’inizio degli anni Cinquanta, prima della morte di Stalin. Tre ragazzi per questo reato erano stati condannati a morte e la condanna fu eseguita. Susanna era stata condannata a venticinque anni, anche se in parte la pena non venne applicata perché nel frattempo Stalin morì. E lei rispose con semplicità, come se fosse la cosa più normale di questo mondo: «Amavamo la poesia. Eravamo amici, come non potevamo condividere le cose belle che amavamo?». In questa risposta scorgiamo la vocazione di Memorial, che è stata essenzialmente questo: far sì che l’uomo viva e mantenga questo gusto per la bellezza e la capacità di sacrificarsi per la bellezza. La questione politica e ideologica è secondaria o comunque non separabile da questo interesse primario.

Per svolgere la propria attività Memorial si serviva di volontari e si avvaleva di tutte le relazioni che poteva costruire con il mondo accademico, come fa un centro di ricerca internazionale, godendo di collaborazioni e di finanziamenti che provenivano da molteplici Paesi. E questo ha dato l’occasione al regime attuale per accusare Memorial di essere un agente straniero, in base all’applicazione di una legge che, varata in prima formulazione nel 2012, recentemente ha avuto come conseguenza la chiusura, la liquidazione, dell’associazione.

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Cosa rappresenta e cosa comporta concretamente questa chiusura?

Le conseguenze sono tuttora incerte. Per adesso il lavoro è bloccato e tutto il materiale è in una condizione che potremmo definire “sotto sequestro”. Soprattutto l’attività è ostacolata in maniera radicale. Ovviamente il lavoro della memoria va avanti. È inutile che qualcuno pensi che basti chiudere un centro per fermare la volontà delle persone che lo hanno ideato e sostenuto. Certamente non hanno più tutti i mezzi, non dispongono più del luogo dove svolgere questo lavoro, dove raccogliere il materiale di un archivio ormai divenuto incredibile, però la coscienza della gente tiene duro, perché sono combattivi, e combattivi come lo sono stati all’epoca del dissenso. Anche questa potrebbe essere una lezione che si può trarre dal premio Nobel: puntare tutto sull’uomo, sulla libertà e sulla responsabilità personale, come recitava un altro slogan di quegli anni Sessanta e Settanta: «Se non lo faccio io e adesso, chi lo farà?».

Tra le attività ostacolate c’è ovviamente quella dell’esercizio della libertà di opinione e di informazione. La Novaja Gazeta, giornale di Mosca fondato proprio da Gorbačëv, è stata di fatto chiusa o comunque ha subito una sospensione della licenza. In quali condizioni si trovano i mezzi di informazione oggi?

Sono stati chiusi tutti gli strumenti di informazione liberi: portali web, televisioni, radio. Alcune di queste istituzioni o organizzazioni hanno smesso di lavorare perché non potevano più farlo. Altri, che si erano attrezzati in tempo, continuano il lavoro che facevano in Russia ma dopo essersi spostati all’estero, nei Paesi baltici o in altre zone, dove sono riusciti a proseguire la propria attività. Dall’estero, nella sua versione europea, Novaja Gazeta continua ad uscire.

Proprio sul sito europeo è stato pubblicato l’intervento che il direttore, Dmitrij Muratov, ha inviato al tribunale di Mosca come istanza difensiva. Nel testo mi colpiva molto la sconclusionata contestazione che viene mossa al direttore e il fatto che si sia giustificata la misura restrittiva imposta al quotidiano come un’azione profilattica – viene usato proprio questo termine, profilassi – quasi si tratti di una malattia, di un rischio di contaminazione… 

È una malattia. Coloro che pensano diversamente sono una malattia, o un insetto nocivo. Il presidente Putin ha usato questa espressione: «Sono come dei moscerini che ti capitano in gola, li devi sputare fuori». Anche l’uso che viene fatto della lingua è tremendo. A volte molto si perde nella traduzione, ma bisogna ascoltare le parole pronunciate nei suoi discorsi per rendersene conto.

Discorsi nei quali Putin non fa che riproporre ossessivamente una mitologia del passato, da difendere e a cui tornare, ma dove manca il riferimento al futuro. Che idea ha Putin del futuro per il proprio Paese? Dove sta andando la Grande Russia?

È difficile dirlo e fare previsioni. Sicuramente il governo russo si è cacciato in una situazione dalla quale sembra incapace di uscire. È evidente come finora abbia ottenuto risultati opposti a quelli che si prefiggeva. Si voleva un’area Nato più lontana dalla Russia, e la Nato non è mai stata così vicina come oggi. Si voleva che la Nato non si allargasse a nuovi Stati (Putin parla di annessione, ma la realtà è che gli Stati chiedono di entrare nell’Alleanza; evidentemente ha una concezione della politica che lo porta ad attribuire ad altri quello che fa lui), ed è successo che Paesi che erano stati neutrali o sicuramente non filoamericani fino a qualche mese fa hanno chiesto di aderire alla Nato. Si voleva arrivare a Kiev e ricostituire l’unione di popoli fratelli, ma il risultato è che si è approfondita l’inimicizia tra di loro come mai avvenuto prima.

Non che i rapporti tra ucraini e russi fossero idilliaci. L’Ucraina storicamente è sempre stata costretta a ritagliarsi uno spazio rispetto alla Russia che via via è diventata più grande ed è innegabile che ci siano state delle tensioni. Tuttavia, va riconosciuto che la gente in Ucraina parlava ucraino o russo a seconda di quello che le veniva meglio e – a parte la situazione nel Donbass e salvo casi particolari – la cosa non procurava difficoltà (io stesso personalmente non ho mai avuto problemi a parlare normalmente il russo quando andavo a Kiev). L’esito del tentativo di Putin di difendere il cosiddetto “mondo russo” è stato che oggi il russo in Ucraina viene considerato, ahimè, la lingua degli assassini. E questo non lo dicono solo gli ucraini, ma lo sostengono molti russi, come abbiamo provato a raccontare attraverso le testimonianze pubblicate sul nostro portale, La Nuova Europa, e come ha documentato nelle sue interviste il grande scrittore russo Michail Šiškin, costretto a spiegare che la lingua non c’entra e che la grande tradizione russa è un’altra cosa.

Dove porterà tutto questo? Non so. Sotto i nostri occhi si sta compiendo il tentativo di distruzione fisica di un Paese, l’Ucraina, e quello di distruzione in forma diversa di un altro Paese, la Russia, che pure in modo differente sta soffrendo a causa della politica di Putin e finirà per pagare un caro prezzo, molto più alto di quello prodotto dalle nostre sanzioni. Sta già avvenendo, basta guardare la gente che va via, che prova a sottrarsi alla mobilitazione parziale, ma anche quelli che restano e percepiscono su di sé quotidianamente il peso della guerra, subendone gli effetti depressivi.

Vladimir Putin è un uomo da un lato perfettamente integrato nel sistema sovietico da cui proviene avendo militato nel Kgb. D’altra parte i suoi riferimenti ideologici, almeno quelli che lui stesso cita esplicitamente (come Ivan Il’in, filosofo e ideologo, ultraconservatore, anticomunista) sono pre-sovietici. In lui sembrano confluire diverse impostazioni, anche contrastanti fra di loro, che finiscono per plasmare la sua personalità e la sua idea di “Russkij Mir”. È sensato e utile tentare di tracciare il suo identikit ideologico e culturale oppure la componente irrazionale e l’esibizione di forza prevalgono in lui sul carisma intellettuale?

Abbozzare un identikit ideologico e culturale è possibile, però per certi versi rende la figura ancora più sinistra. Ivan Il’in è diventato ad un certo punto estimatore del nazismo (sua l’affermazione che ogni movimento dovrebbe andare in estasi di fronte al nazionalsocialismo), e questo basta per averne paura. Altri “pensatori”, come il noto Dugin, rendono il livello culturale e ideologico di Putin ancora più basso, rappresentando un’irrilevanza culturale che spesso purtroppo da noi viene presa sul serio, diffusa e propagandata. Sulle ispirazioni culturali, filosofiche di Putin ha scritto un bel libro Michel Eltchaninoff, tradotto anche in italiano con il titolo Nella testa di Vladimir Putin.

Che cosa sta dietro le sue azioni e la scelta di invadere l’Ucraina? Secondo tanti osservatori le ragioni di questa guerra sono diverse. C’è sicuramente il culto della potenza, ma soprattutto l’idea di non poter tollerare ai confini della Federazione Russa un tentativo concreto di costruire un Paese democratico, pur con tutti i limiti di un processo in fase di realizzazione. Per Putin questo è inaccettabile perché l’Ucraina è un Paese ex sovietico e l’idea dell’imitazione di questo tentativo potrebbe rappresentare un rischio enorme di tenuta per i governi e le popolazioni che ancora si trovano nella sfera di influenza russa. 

Secondariamente la Russia è un Paese che sta vivendo una crisi economica, che ha un sistema che non può neppure lontanamente essere scambiato per un’economia moderna ma è basato quasi esclusivamente sull’esportazione di materie prime, senza una struttura industriale forte. E come sempre un Paese in crisi cerca il nemico esterno per distrarre l’attenzione della gente, ricorrendo a una politica di potenza e a uno sfoggio di supposta grandezza e capacità di incutere terrore, di tornare a “fare paura”.

E questo è un ulteriore elemento che pochi osservatori hanno colto ma che è divenuto sempre più evidente nelle ultime settimane: la costruzione di una narrativa fondata sulla paura, alimentata tramite il ricorso all’intimidazione e alla prefigurazione di scenari peggiori: «Attenti che non arriverete alla fine dell’inverno… Attenti che potremmo usare la bomba nucleare…». Dietro questi avvertimenti, che noi leggiamo come minacce congiunturali, c’è la volontà di fare della paura un elemento strutturale. Un sistema come questo, che sta assumendo ormai le caratteristiche di un sistema totalitario, ha bisogno della paura e si regge sulla violenza e sul timore di subirla: non è necessario sempre sbattere in galera il nemico, ma è importante che questi sappia che può succedere, e che viva nella paura.

Non è un caso che, nei suoi discorsi, Putin insista non solo sul fatto che l’Unione Sovietica era un grande Paese, ma che era un Paese che faceva paura. E che gli altri Paesi non solo rispettavano, ma temevano.

Ricordo un ritratto che Svetlana Aleksievič ha fatto di Putin in cui il leader russo viene descritto come un uomo uscito dal lager, condizione che simbolicamente rappresenta il mondo sovietico. Secondo la scrittrice, crollato quel mondo, Putin non avrebbe saputo riconoscere lo stato di libertà, mancando di una sensibilità per la libertà, così come in qualche modo l’intero popolo russo che ne è stato privato per decenni. E insieme alla libertà – aggiunge l’Aleksievič – Putin non capisce la democrazia, perché la identifica con la mancanza di regole, un’assenza di forza, un punto di fragilità. Per lui tutto ciò che non è forza, è debolezza. 

Qualcuno ha detto che la vera fine dell’Unione Sovietica è adesso e che questa guerra potrebbe coincidere con lo smascheramento dell’ipocrisia e della menzogna, e con un radicale superamento di questo culto della potenza e della supremazia dell’ideologia sulla realtà. L’epilogo della mitologia di Putin e di coloro che lo sostengono.

Riguardo al popolo, eviterei di cadere nella trappola della generalizzazione. È molto difficile dire cosa sia il popolo e, anche se la maggioranza della popolazione russa sicuramente la pensa come Putin o è indifferente, non si deve trascurare l’esistenza di una minoranza più informata e consapevole. Non dobbiamo dimenticare che il dissenso di cui parlavamo prima, che ha cambiato questo mondo, era composto da un’infima minoranza. Erano letteralmente quattro gatti. Racconto sempre l’episodio dei sette manifestanti che si presentarono il 25 agosto del 1968 sulla Piazza Rossa per protestare contro l’invasione della Cecoslovacchia. Erano numericamente insignificanti rispetto ai milioni di cittadini sovietici che non avevano mosso un dito o che avevano accettato quello che il loro governo stava facendo. Naturalmente furono arrestati immediatamente, dopo aver esposto per pochi istanti i loro cartelli, su uno dei quali stavano scritte queste parole: “Per la vostra e la nostra libertà”. Furono condannati e politicamente annientati, sconfitti. Ma, con quella mobilitazione, hanno fatto capire ai dissidenti degli altri Paesi colpiti dalla repressione sovietica che era necessario un lavoro comune. In pochissimi che erano, sono stati in grado di riscattare l’onore e la dignità di un Paese di duecento milioni di persone. Hanno cambiato il mondo.

Oggi in Russia c’è molta gente che non ha saputo valutare fino in fondo il valore della libertà e su questo costruire un pensiero critico; tuttavia, le manifestazioni che si sono svolte, in reazione alla tragedia del febbraio scorso, hanno coinvolto diverse migliaia di giovani che, partecipando, hanno rischiato o subìto l’arresto da parte delle forze dell’ordine.

Si può parlare di una complicità, di una corresponsabilità del popolo russo in questa guerra? Lo chiedo pensando all’insensibilità e al cinismo di molte persone intervistate o agli episodi di razzia e profanazione commessi dai militari russi, documentati in tante riprese video. È lecito parlare di colpa collettiva di fronte a questi fatti?

Se si vuole parlare di responsabilità collettiva, va fatto nel senso della responsabilità morale che ciascuno dovrebbe avvertire di fronte alle vicende che macchiano la storia del proprio Paese, anche le più gravi e dolorose, pur non avendovi preso parte o senza che ve ne sia stata la men che minima condivisione. Mi riferisco ad esempio alla responsabilità che dobbiamo sentire noi italiani oggi nei confronti del fascismo o della promulgazione delle leggi razziali, o la responsabilità di cui devono farsi carico i cittadini tedeschi nei confronti del nazionalsocialismo. Tutti siamo responsabili di tutto. «Ciascuno personalmente è colpevole per tutta l’umanità e per ogni altro singolo uomo sulla terra» fa dire Dostoevskij a Dmitrij nei Fratelli Karamazov.

Quindi una responsabilità c’è, ma come non possiamo confondere la Germania con il nazismo, così non possiamo confondere la Russia con il putinismo. La responsabilità è sempre personale e c’è una gradualità della responsabilità. Ci sono gradazioni diverse che si vedono laddove c’è della gente in Russia che ha scelto una via diversa, pur rischiando di finire in galera (pensiamo a Naval’nyj che, con tutti i limiti che può avere la sua posizione politica, torna nel suo Paese pur sapendo che verrà arrestato). Se non si riconosce questa gradualità, si rischia di trasformare il popolo russo in un colpevole di questa guerra, quando invece ne è in qualche modo vittima, sebbene in maniera evidentemente diversa dal popolo ucraino aggredito.

È importante recuperare invece la centralità della responsabilità personale, il che significa saper valutare fino in fondo il ruolo della libertà, e quindi “delle colpe” che uno può avere commesso, nella consapevolezza che nessuno può dirsi al riparo dall’errore. E questa è tra l’altro una delle grandi lezioni della cultura russa. In Arcipelago Gulag – il testo che maggiormente ha contribuito a denunciare le storture del comunismo, dove le colpe vengono chiaramente indicate, i colpevoli sono chiaramente individuati – Solženicyn fa la cronaca dei campi di concentramento e fornisce una testimonianza terribile delle strutture ideologiche che li hanno prodotti, ma ad un tratto dice: «Chiuda pure il libro a questo punto il lettore che si aspetta di trovarci una rivelazione politica. Se fosse così semplice! Se da una parte stessero soltanto uomini neri, che tramano malignamente opere nere e bastasse distinguerli dagli altri e distruggerli! Ma – continua  Solženicyn –  la linea che separa il bene dal male attraversa il cuore di ognuno. […] Ci fermiamo stupefatti davanti alla fossa nella quale eravamo lì lì per spingere i nostri avversari: è puro caso se i boia non siamo noi, ma loro». Sono parole illuminanti che cito spesso e recentemente ho usato per commentare la posizione di Papa Francesco, che noi a volte riduciamo ad un pacifismo relativista e senza nerbo, quando invita a uscire «dalla dialettica di Cappuccetto Rosso» e qualcuno di noi pretenderebbe allora di far la pace a tutti i costi: in queste parole, come in quelle di Solženicyn, non c’è nessun relativismo; solo si sposta il problema al suo livello reale profondo, indicandone la vera radice nel cuore dell’uomo, dove l’aggredito non si confonde mai con l’aggressore, ma questo non ci deve rendere schiavi della logica dell’aggressore. 

Chi sono le persone che hanno avuto il coraggio di protestare o quelle che stanno lasciando il Paese per evitare l’arruolamento forzato?

La composizione di quelli che stanno fuggendo è varia. Ci sono quelli che scappano per interesse, per non essere coinvolti, per paura. Ci sono quelli che se ne vanno perché si rifiutano di sparare, per non partecipare ad un crimine. Qualcuno ha anche osservato che in fondo Putin, con questa mobilitazione parziale e la conseguente minaccia di arresto in caso di renitenza, si è liberato di possibili oppositori. Per altri ha perso una delle parti più significative delle risorse produttive e creative del Paese, perché quelli che vanno fuori sono persone che molto spesso sanno di poter trovare un lavoro all’estero. 

Tra chi protesta ci sono molti giovani che inizialmente non avevano una posizione politica, e a un tratto si vedono crollare tutto e temono venga loro preclusa la possibilità di andare all’estero, che fondamentalmente per loro significa perdere la libertà. La loro non è una scelta egoistica, motivata dal disimpegno e dall’opportunismo, come potremmo facilmente pensare dalle nostre parti. Si tratta, al contrario, come per i giovani ucraini di Maidan, di una scelta responsabile che nasce da una radicale concezione della libertà e dalla consapevolezza che il valore della persona è irriducibile, che ciascuno vale nella propria singolarità e unicità.

Considerando la grande tradizione cristiana russa, colpisce il ruolo attuale della chiesa ortodossa. Si è verificata una convergenza tra i due poteri, quello politico e quello spirituale, che sembrano autosostenersi con legittimazione reciproca. Di fatto un appiattimento della religione sulla ragione politica, tanto da far temere una degenerazione verso una pericolosa forma di totalitarismo religioso. Una nuova teocrazia?

Non si può negare che ci troviamo di fronte ad una complicità e corresponsabilità molto gravi. Su La nuova Europa, qualche tempo fa, abbiamo pubblicato un documento che originariamente era firmato da una sessantina di teologi ortodossi, i quali accusavano esplicitamente di eresia il patriarca Kirill e l’ideologia del “Russkij Mir”. Esattamente l’accusa era di etnofiletismo, un’eresia che da noi non esiste e consiste nella confusione dell’appartenenza ecclesiale con quella etnica, fino a far diventare la chiesa un dicastero statale.

Si può comprendere come Putin abbia bisogno di una giustificazione spirituale, ma come si spiega il fatto che la Chiesa di Mosca possa ritenere opportuna e conveniente un’adesione totale e incondizionata alla visione politica dello “zar”?

L’idea del “Russkij Mir” è il risultato di una trasformazione di un’esigenza che era nata in un contesto completamente diverso, essenzialmente laico, e che – semplificando molto – doveva servire a restituire un’identità ad un Paese che l’aveva persa con la fine dell’Unione Sovietica. Questa impostazione, trasferita a livello ecclesiale, viene inizialmente percepita e rielaborata dall’interno come una sorta di concezione missionaria che, anche legittimamente, andava a recuperare tante componenti del mondo religioso russo legate alla vecchia tradizione, le quali erano rimaste fuori dal Paese in seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica (si pensi anche solo alle chiese del vastissimo territorio ucraino). L’idea, originariamente non sbagliata, era quella di evitare la dispersione di elementi tradizionali e tenere assieme, facendole rientrare almeno spiritualmente, tante forze in grado di rivitalizzare la Chiesa e la società russa.

Una volta messa in pratica, questa idea – smascherando un nazionalismo esclusivo che era il suo vizio d’origine – si è trasformata nel suo contrario, divenendo una sorta di riappropriazione fortemente identitaria della vera tradizione russa da ricomporre in unità, anche attraverso una vera e propria riconquista del terreno perso. Nella visione attuale, il “Russkij Mir” assume la forma di un mondo unitario, il cui centro è Mosca, che racchiude Russia, Bielorussia e Ucraina. Ma nella logica della conquista, la definizione di “Mondo russo” si allarga ulteriormente fino a includere oltre al mondo slavo anche tutto il mondo che in qualche maniera è interessato alla tradizione russa. Sembra un’esagerazione, ma la definizione di “Russkij Mir” comprende anche, ad esempio, quelli – come il sottoscritto – che amano e parlano la lingua russa.

Guardando con preoccupazione a questa guerra che si avvia verso l’inverno e probabilmente verso una fase di stallo: qual è secondo lei lo scenario più auspicabile? Quale quello più probabile?

Sono sempre molto restio a fare delle previsioni, anche perché in questa vicenda molte previsioni sono saltate fin dal primo giorno: la previsione che Putin sarebbe arrivato a Kiev in tre giorni e avrebbe cambiato il governo; la previsione di una guerra lampo fondata sull’aspettativa di una resa immediata da parte degli ucraini, che invece hanno resistito. Ora siamo arrivati a non poter più escludere il ricorso della Russia alle armi nucleari, una minaccia che nessuno avrebbe ritenuto possibile mesi fa, anche perché realisticamente significherebbe la fine totale di tutto. 

Quindi, cosa succederà adesso? Dove stiamo andando? Non lo so. So soltanto che la vittoria non dipende da noi, ma che non bisogna mai smettere di sperare. Vasilij Grossman (autore di Stalingrado e Vita e Destino) non era cristiano, ma aveva colto quello che c’è nel cuore dell’uomo. A Stalingrado, vedeva che le cose sarebbero andate bene nonostante tutto, che avrebbero vinto e sconfitto Hitler, non perché era ottimista. Ma perché sperava. È questa la via che dobbiamo seguire, perché chi gioca con queste carte vince, cambia sé stesso e il mondo.

Grossman non era cristiano, ma la speranza è una parola anche cristiana, la parola che conoscono coloro che sanno di essere stati in qualche modo già liberati e che da questa convinzione si sentono sostenuti.

Sì, lui aveva visto qualcosa oltre il male e aveva fatto esperienza di questa libertà. E sapeva che la libertà è un’attitudine che va coltivata e alimentata ogni giorno. Non è guadagnata una volta per tutte.

Però dovremmo aver chiaro cosa desideriamo e cosa siamo veramente disposti a perdere per questo. Può esistere una pace senza giustizia?

Ricordo una vecchia battuta di Churchill: «Potevamo scegliere tra una pace vergognosa e la guerra. Abbiamo scelto la pace, e abbiamo avuto la guerra». Per certi versi, volendo riprendere la battuta, noi non abbiamo avuto la possibilità di scegliere. Abbiamo avuto la guerra. Però a questo punto possiamo scegliere di rifiutare la vergogna. 

In questi giorni si parla molto di pace, ma la pace ha delle caratteristiche precise, altrimenti è soltanto una sosta per passare alla guerra successiva. Tutti desiderano la pace, è fin troppo scontato dirlo. Quale folle potrebbe non desiderarla? Il problema è che deve essere una pace reale. Si deve fare di tutto per arrivare alla pace. Si devono favorire tutti gli sforzi diplomatici e ogni tentativo di trattativa è necessario. Nessuno può pensare il contrario. L’ha detto Papa Francesco con un realismo e un’intelligenza politica e umana impressionanti parlando ai giornalisti di ritorno dal Kazakistan: «Credo che sia sempre difficile capire il dialogo con gli Stati che hanno cominciato la guerra […] ma dobbiamo dare l’opportunità del dialogo a tutti». Poi ha aggiunto: «Perché sempre c’è la possibilità che nel dialogo si possano cambiare le cose […] Delle volte il dialogo si deve fare così, puzza ma si deve fare». E ha concluso: «Chi non difende qualcosa non la ama; invece, chi difende ama», indicando ancora una volta quello che dovrebbe essere il criterio delle nostre azioni, un amore dove non ci può mai essere pretesa di possesso o di dominio, ma solo il gusto per la libertà e la dignità, mia e dell’altro.

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 23, NUMERO 4, Dicembre 2022

 

Adriano Dall'AstaAdriano Dell’Asta è docente di lingua e letteratura russa presso l’Università Cattolica. È stato direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Mosca dal 2010 al 2014. Accademico della Classe di Slavistica della Biblioteca Ambrosiana, è vicepresidente della Fondazione Russia Cristiana e membro del Comitato Scientifico Internazionale della rivista «La Nuova Europa»; membro della redazione della rivista «Koinonija» di Charkiv e del comitato scientifico della rivista «Colloquia mediterranea», fa inoltre parte del Comitato dei Consulenti della rivista della Pontificia Università Cattolica del Cile, «Humanitas».