(di P. Fabio Silvestri ocd)
Intorno al fenomeno epocale e drammatico delle migrazioni — in particolare di profughi e richiedenti asilo — si contano ogni giorno opinioni divergenti, reciproche condanne e, soprattutto, numerosi interrogativi: quali le certezze, quali gli aspetti non chiari e quale infine il giudizio adeguato di fronte alla complessità del fenomeno? Per un cattolico, in particolare, si pone il diritto e il dovere filiale di chiedere una guida alla Chiesa. Questo approfondimento, attraverso l’insegnamento degli ultimi Pontefici, proverà a riassumere i principi fondamentali che il Magistero afferma alla luce del Vangelo, quando si parla di confini da lasciare e varcare, di fratelli che soffrono e muoiono, di accoglienza possibile e vera integrazione.

Ci riguarda
Sarebbe difficile, e poi anche ingiusto, non farsi domande. Ogni giorno ci raggiungono notizie e immagini che nessuno può ignorare: quelle di migranti detenuti in condizioni indegne nei campi di smistamento degli Stati che intendono lasciare; quelle che ne attestano la tortura da parte dei trafficanti, per estorcere ai parenti un prezzo maggiore per il “viaggio”; quelle di barconi stipati all’eccesso di volti, di miserie e di speranze; quelle di migranti partiti e mai arrivati, morti in mare senza nome né tombe; quelle di immigrati giunti in Italia o altri Paesi, senza che sia chiaro chi possa e debba accoglierli; quelle di persone che, semplicemente, non hanno più nulla… No, nessuno, tanto meno un credente, può permettersi di dire: “Questo però non mi riguarda…”. Perché se un uomo, per diverse ragioni, può essere privato fino a questo punto della sua dignità — e se bisogna fare di tutto per evitarlo — allora tutto questo riguarda anche noi, riguarda anche me: dovunque io mi trovi e qualunque siano le mie convinzioni. Perché tutto questo, prima ancora, riguarda il cuore di Dio. Ma non sarebbe possibile non farsi domande anche per una seconda ragione: fatti di tale portata — oltre che preghiera e primo soccorso — richiedono un giudizio su ciò che realmente sta accadendo, che non sia superficiale, né solo mediatico. Lo esige l’intelligenza della fede e della carità, non soltanto le ragioni di uno Stato. Né sono pochi gli interrogativi, che solo insieme danno la misura reale del problema: ad uno Stato può essere chiesta un’accoglienza “a prescindere”? È ammissibile, viceversa, la soluzione estrema di una chiusura intransigente? Esiste un limite ragionevole agli ingressi, con riferimento alla tenuta sociale e religiosa di un Paese? È giusto che, nel nome della solidarietà, si collabori (lo Stato stesso, le Ong, etc.) anche con chi vende miseria e morte altrui, come trafficanti e scafisti? E infine: la carità religiosa richiesta a singoli e gruppi può essere criterio adeguato anche per gli interventi di uno Stato?
Di fronte a domande di questa portata (e che qui non è possibile affrontare), si deve poter invocare almeno una risposta: cioè quella materna della Chiesa, con ciò che essa insegna, in particolare attraverso il magistero dei suoi Pontefici. Proveremo quindi a sintetizzare alcuni capisaldi della Dottrina sociale della Chiesa (su questo tema), un patrimonio tanto vasto quanto spesso colpevolmente ignorato.
Gli inizi: la cura pastorale dei migranti italiani
Contrariamente a quanto potrebbe pensare qualcuno, la cura della Chiesa Cattolica per i migranti non è iniziata solo di recente, per l’aggravarsi del fenomeno. Si sono infatti succedute tappe diverse che l’hanno scandita nei secoli passati e poi, in modo particolare, dagli inizi del secolo scorso. E forse ci si potrà sorprendere nel constatare come essa abbia riguardato inizialmente il fenomeno (allora massiccio) dell’emigrazione degli italiani. Il 5 agosto del 1912, infatti, per far fronte a questo importante esodo, Pio X istituiva l’Ufficio speciale per l’emigrazione, che il suo successore Benedetto XV integrò nel 1920 con l’Ufficio del prelato per l’emigrazione italiana. Intanto, ai Vescovi italiani era stata inviata da Roma la lettera circolare “Il dolore e le preoccupazioni”, per istituire una Giornata annuale di sensibilizzazione per la cura degli emigrati italiani. Dopo la seconda guerra mondiale, poi, Pio XII intervenne più volte perché fosse garantita una cura pastorale per le migrazioni di massa post–belliche: nel 1946 istituendo l’Ufficio migrazioni presso la Segreteria di Stato; e poi, soprattutto, promulgando la prima Costituzione Apostolica sul tema, dal titolo Exsul familia, il 1 agosto 1952. Successivamente sorse un’istituzione dedicata: il 19 marzo 1970 Papa Paolo VI erigeva infatti la Pontificia Commissione per la cura spirituale dei migranti e degli itineranti, che nel 1988 Giovanni Paolo II elevò a Pontificio Consiglio e le cui funzioni infine, per volontà di Papa Francesco, sono state assorbite dal Dicastero per lo sviluppo umano integrale (dal gennaio 2017).
Se queste sono state le tappe principali della cura istituzionale per i migranti, altrettanto importante è stato lo sviluppo della dottrina. Valutando in particolare il Magistero del dopoguerra, è possibile enuclearne (in ordine tematico e non cronologico) alcuni principi fondamentali, per altro non senza qualche possibile sorpresa: là dove sarà messo in luce come alcune attenzioni non siano state proprie di un solo pontificato, ma di tutti i Papi in modo concorde; oppure là dove le espressioni più esigenti sul tema risultino di pontefici il cui Magistero non è normalmente associato alla cura pastorale dei migranti. Ad ogni modo, ciò che emerge con certezza dall’insieme dei dati sono l’ampiezza, la profondità e l’equilibrio di un’attenzione pastorale e dottrinale capace di considerare l’intera complessità del tema in questione.
I migranti sono… persone!
Il primo principio affermato dal Magistero della Chiesa è senza dubbio quello più elementare ma che, proprio per questo, rischia di essere dimenticato, soprattutto quando si ragiona di grandi numeri e problemi connessi. Ed è questo: i migranti sono persone! Persone che avevano una patria, una casa, una memoria. Persone che avevano legami, amicizie, parentela. E persone che ora si ritrovano a veder messa in gioco la loro stessa umanità, la loro ultima dignità. Già Giovanni XXIII, in un suo intervento dell’estate del 1962, aveva ricordato che «l’emigrazione è principalmente un fatto umano di vaste proporzioni, di cui son protagonisti uomini e donne, cioè persone concrete, volitive, ciascuna con i suoi problemi» (Discorso agli emigranti e ai profughi, 5 agosto 1962).
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Il Volto di Cristo nel volto dei migranti
Nell’omelia di Natale dello scorso anno (il 24 dicembre 2017), lo stesso Papa Francesco aveva poi associato la condizione precaria della Santa Famiglia, in viaggio verso Betlemme per il censimento, a quella attuale di tanti migranti e profughi. L’accostamento aveva suscitato la reazione di alcuni: in realtà il Papa era già ricorso altre volte a questa immagine (cfr. Angelus, 29 dicembre 2013), sulla base di un Magistero consolidato che, in senso più profondo, chiede di riconoscere, nel volto del migrante, il Volto del Signore. Si pensi, innanzitutto, al primo documento pontificio dedicato alla cura degli immigrati (con particolare attenzione a quelli italiani), cioè la citata Costituzione Apostolica Exsul Familia (1 agosto 1952), con la quale (e sin dal titolo) Pio XII affermava: «La Santa Famiglia rifugiata di Nazareth, che fugge in Egitto, è l’archetipo di ogni famiglia rifugiata. Gesù, Maria e Giuseppe, in esilio in Egitto per scappare dalla furia di un re cattivo sono, per tutti i tempi e tutti i luoghi, l’esempio e i protettori di ogni migrante, straniero e rifugiato di qualsiasi tipo, che forzato dalla paura di persecuzioni o da necessità, è costretto a lasciare il suo paese natale, gli amati genitori e parenti, gli amici più stretti, e cercare un paese straniero» (n. 1). Giovanni Paolo II, dal canto suo, aveva proposto il riferimento più impegnativo dei migranti non regolari, bisognosi di una prima assistenza: «Nella Chiesa nessuno è straniero, e la Chiesa non è straniera a nessun uomo e in nessun luogo. In quanto sacramento di unità, e quindi segno e forza aggregante di tutto il genere umano, la Chiesa è il luogo in cui anche gli immigrati illegali sono riconosciuti ed accolti come fratelli. […] “Ero forestiero e mi avete ospitato” (Mt 25, 35). […] Oggi il migrante irregolare ci si presenta come quel “forestiero” nel quale Gesù chiede di essere riconosciuto. Accoglierlo ed essere solidali con lui è dovere di ospitalità e fedeltà alla propria identità di cristiani» (Messaggio per la Giornata Mondiale dell’Emigrazione, 25 luglio 1995). Tuttavia, l’identificazione di maggiore impatto, tra quelle proposte dal Magistero, resta forse quella di Papa Benedetto XVI che, con sintesi radicale, ha ricordato ai credenti che «il Messia, il Figlio di Dio, è stato un rifugiato!» (Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, 16 gennaio 2011).
Diritto di emigrare e… di non emigrare
Quello espresso dalla Chiesa sul fenomeno delle migrazioni non è ad ogni modo soltanto un pensiero “religioso”, cioè interpretabile unicamente alla luce della fede. La sua Dottrina sociale riconosce infatti nel concetto di “bene comune universale” il fondamento del “diritto di emigrare”: «Questi diritti trovano concreta applicazione nel concetto di bene comune universale. Esso abbraccia l’intera famiglia dei popoli, al di sopra di ogni egoismo nazionalista. È in questo contesto che va considerato il diritto ad emigrare. La Chiesa lo riconosce ad ogni uomo nel duplice aspetto di possibilità di uscire dal proprio Paese e possibilità di entrare in un altro alla ricerca di migliori condizioni di vita» (Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale delle migrazioni, 2 febbraio 2001). Ma la stessa Dottrina sociale della Chiesa sancisce un altro diritto fondamentale che oggi rischia di essere dimenticato o, forse, volutamente ignorato, quando in modo più ideologico si vorrebbe affermare il valore “sempre positivo” della migrazione, non senza possibili strumentalizzazioni politico–economiche. Ci riferiamo al diritto che ogni persona ha di “non emigrare” e che, anzi, nell’interesse degli stessi “potenziali migranti”, rappresenta il confine più autentico del diritto di emigrare. Con grande chiarezza questo principio è stato enunciato da Giovanni Paolo II, precisando che «diritto primario dell’uomo è di vivere nella propria patria: diritto che però diventa effettivo solo se si tengono costantemente sotto controllo i fattori che spingono all’emigrazione» (Discorso al IV Congresso mondiale per i migranti e gli itineranti, 9 ottobre 1998). Ma in modo simile si è espresso anche Benedetto XVI: «La soluzione fondamentale è che non ci sia più bisogno di emigrare, perché ci sono in Patria posti di lavoro sufficienti, un tessuto sociale sufficiente, così che nessuno abbia più bisogno di emigrare. Quindi, dobbiamo lavorare tutti per questo obiettivo, per uno sviluppo sociale che consenta di offrire ai cittadini lavoro ed un futuro nella terra d’origine» (Discorso per il viaggio negli Stati Uniti, 15 aprile 2008).
I doveri dello Stato: integrare e custodire la propria identità
Come per i diritti di coloro che migrano, il pensiero della Chiesa si articola in modo complesso anche per descrivere i corrispondenti doveri degli Stati, con affermazioni di grande attualità: «I Paesi ricchi non possono disinteressarsi del problema migratorio e ancor meno chiudere le frontiere o inasprire le leggi, tanto più se lo scarto tra i Paesi ricchi e quelli poveri, dal quale le migrazioni sono originate, diventa sempre più grande» (Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata mondiale dell’emigrazione, 5 agosto 1987). In secondo luogo, però, non sarebbe utile né lungimirante un’accoglienza senza progetto. L’integrazione da offrire ai migranti, infatti, dovrà riguardare prima di tutto la garanzia dei loro diritti fondamentali, come ricordano sia l’Esortazione Ecclesia in Europa (cfr. n. 101) che il Catechismo (cfr. n. 2241); e poi dovrà evitare di ridursi ad «un’assimilazione, che induce a sopprimere o a dimenticare la propria identità culturale. Il contatto con l’altro porta piuttosto a scoprirne il “segreto”, ad aprirsi a lui per accoglierne gli aspetti validi e contribuire così ad una maggior conoscenza di ciascuno. È un processo prolungato che mira a formare società e culture, rendendole sempre più riflesso dei multiformi doni di Dio agli uomini» (Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale del migrante e del rifugiato, 24 novembre 2004).
Al dovere di accogliere e integrare si connette allora un secondo compito per lo Stato (che da un punto di vista logico dovrebbe precedere il primo), e cioè quello di preservare la tenuta del patrimonio sociale, culturale e religioso del Paese che ospita. Questa esigenza, più ancora di quello geografico, segna il confine di “giustizia” delle politiche di accoglienza: ne deve essere cioè la misura, per garantire un’integrazione sostenibile e una convivenza pacifica. D’altra parte, il dovere di considerare «non solo l’interesse dell’immigrato, ma anche il benessere della nazione» era stato segnalato già da Papa Pio XII, nel marzo del 1946, ai responsabili della diplomazia degli Stati Uniti, per i flussi migratori post–bellici. Espressioni di forte realismo erano state poi quelle di Giovanni Paolo II, nel sostenere che «l’accoglienza deve sempre realizzarsi nel rispetto delle leggi e quindi coniugarsi, quando necessario, con la ferma repressione degli abusi» (Ecclesia in Europa, n. 101). In questo senso, esiste infatti un correlativo dovere dell’immigrato, che per il Catechismo si concretizza nel «rispettare con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del paese che lo ospita, obbedire alle sue leggi, contribuire ai suoi oneri» (CCC, n. 2241). Benedetto XVI ha infine ulteriormente precisato il criterio in questione sul versante della responsabilità politica, ricordando agli amministratori locali italiani che «bisogna saper coniugare solidarietà e rispetto delle leggi, affinché non venga stravolta la convivenza sociale e si tenga conto dei principi di diritto e della tradizione culturale e anche religiosa da cui trae origine la Nazione italiana» (Discorso ai membri dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani, 12 marzo 2011).
Ma su questo tema la posizione che maggiormente colpisce — almeno per chi vorrebbe recepire il suo Magistero in modo unilaterale — è quella più recente di Papa Francesco.
Se è indubbio, infatti, che il suo pontificato sia segnato da un forte accento posto sull’accoglienza, è altrettanto vero che, in particolare negli ultimi due anni, il Papa si è espresso in modo più frequente sul dovere statale di regolare gli ingressi. Tanto che alcuni media sono arrivati ad ipotizzare una certa “svolta” del suo pensiero, che in qualche modo lo stesso Papa ha voluto precisare con riguardo al giusto “confine” dell’integrazione sostenibile: «Ho visto che dovevo esplicitare un po’ di più, perché non è un accogliere “à la belle étoile”, così… deve essere un accogliere ragionevole. Quando me ne sono accorto? Quando c’è stato l’attentato in Belgio. Quelli che lo hanno fatto erano belgi ma figli di migranti non integrati, ghettizzati. Erano stati ricevuti dal Paese ma lasciati lì, e hanno fatto un ghetto. Un popolo che può ricevere ma non ha possibilità di integrare, è meglio non riceva» (Intervista di ritorno dall’Irlanda, 28 agosto 2018). Il criterio di riferimento diventa dunque quello dell’apertura congiunta alla prudenza: «Ci vuole anche la prudenza dei governanti: devono essere molto aperti a riceverli, ma anche fare il calcolo di come poterli sistemare, perché un rifugiato non lo si deve solo ricevere, ma lo si deve integrare. E se un Paese ha una capacità di venti, diciamo così, di integrazione, faccia fino a questo. Un altro di più, faccia di più» (Intervista nel viaggio di rientro da Malmö, 2016). È quindi importante evitare che i tessuti sociali nei quali deve avvenire l’integrazione non sentano «minacciata la propria sicurezza, la propria identità culturale e i propri equilibri politico–sociali» (Discorso per gli auguri al Corpo Diplomatico, 9 gennaio 2017). Questa istanza, per i governanti, si configura di conseguenza come «una precisa responsabilità verso le proprie comunità, alle quali devono assicurare i giusti diritti e lo sviluppo armonico, per non essere come il costruttore stolto che fece male i calcoli e non riuscì a completare la torre che aveva cominciato a edificare» (Messaggio per la Giornata Mondiale della pace, 1 gennaio 2018).
L’appello alla cooperazione internazionale e una profezia inascoltata
C’è un ultimo livello delle indicazioni offerte dalla Dottrina Sociale della Chiesa, che fa a sua volta da confine all’impegno del singolo Stato, in particolare a fronte di fenomeni di ampia portata. Nella sua Enciclica Caritas in veritate, Benedetto XVI aveva precisato che quello attuale è «un fenomeno sociale di natura epocale, che richiede una forte e lungimirante politica di cooperazione internazionale per essere adeguatamente affrontato. Tale politica va sviluppata a partire da una stretta collaborazione tra i Paesi da cui partono i migranti e i Paesi in cui arrivano; va accompagnata da adeguate normative internazionali in grado di armonizzare i diversi assetti legislativi, nella prospettiva di salvaguardare le esigenze e i diritti delle persone e delle famiglie emigrate e, al tempo stesso, quelli delle società di approdo degli stessi emigrati» (n. 62).
In questo senso vanno anche le considerazioni offerte da Papa Francesco in alcuni suoi recenti interventi ufficiali: «È importante che le Nazioni in prima linea nell’affrontare l’attuale emergenza non siano lasciate sole, ed è altrettanto indispensabile avviare un dialogo franco e rispettoso tra tutti i Paesi coinvolti nel problema — di provenienza, di transito o di accoglienza — affinché, con una maggiore audacia creativa, si ricerchino soluzioni nuove e sostenibili» (Discorso per gli auguri al Corpo Diplomatico, 11 gennaio 2016).
Tuttavia, questo doveroso richiamo alla collaborazione tra gli Stati non potrebbe non richiamare alla mente un livello più originario, cioè quello di un vero confronto con le cause delle migrazioni, in particolare se forzate e dovute a gravi necessità (povertà, instabilità politica, guerre, etc.).
A questo proposito, e a conclusione di questa panoramica, ci sembra allora quanto mai opportuno richiamare il Magistero di quel Papa che il prossimo 14 ottobre sarà proclamato Santo.
Nell’orizzonte lungimirante dell’Enciclica Populorum progressio (26 marzo 1967), infatti, Paolo VI aveva già fatto risuonare l’appello globale ad un nuovo umanesimo, capace di promuovere un «autentico sviluppo, che deve essere integrale, cioè volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo» (n. 14)»; ma ricordando anche che «non vi è umanesimo vero se non aperto verso l’Assoluto» (n. 42). Di qui le parole conclusive rivolte a tutta l’umanità, e in particolare ai governanti: «Voi tutti che avete inteso l’appello dei popoli sofferenti, voi tutti che lavorate per rispondervi, voi siate gli apostoli del buono e vero sviluppo, che non è la ricchezza egoistica e amata per se stessa ma l’economia al servizio dell’uomo, il pane quotidiano distribuito a tutti come sorgente di fraternità e segno della Provvidenza» (n. 86).
E forse, se queste parole fossero state maggiormente ascoltate già a partire da quegli anni, in particolare dai Paesi più ricchi, oggi sarebbe meno tragica la portata del fenomeno migratorio, più pronta la disponibilità a farvi fronte e più certa la volontà comune di costruire un’autentica “civiltà dell’amore”. Che avrà sempre, come unico confine, il valore sacro di ogni singola persona umana.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 19, NUMERO 3, Settembre 2018