(di Massimo Gelmini)
In un periodo in cui il dibattito sul tema dell’accoglienza si è particolarmente inasprito, lasciando spazio alla polemica alimentata anche da discutibili proclami e iniziative politiche, ci sembra utile chiarire come funziona il sistema italiano di gestione dei migranti. Un sistema che rimane fortemente sotto pressione, nonostante gli sbarchi si siano considerevolmente ridotti nell’ultimo anno. Per provare a capire cosa sta accadendo e verificare le reali dimensioni del fenomeno migratorio in Italia, al di là di percezioni o manipolazioni, abbiamo attinto all’esito del lavoro di analisi e di verifica condotto dall’ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale ) per fornire informazioni e proporre spunti di riflessione fondati il più possibile su dati oggettivi (le cui fonti sono, ad esempio, UNHCR, Eurostat, Ministero dell’Interno, Guardia Costiera, Commissione Europea).

Calo degli arrivi: la tendenza
L’andamento dei flussi su rotte non autorizzate dipende da trend stagionali e da fattori esterni quali le decisioni e le politiche degli attori coinvolti a vario titolo nella generazione e nella gestione del fenomeno migratorio. In Italia, tra il 2014 e il 2017, sono sbarcate ogni anno più di 100.000 persone (625.000 in totale). Se fino al 2015 gran parte dei migranti proseguiva per altre destinazioni in Europa, successivamente l’aumento dei controlli alle frontiere ha scaricato l’onere dell’accoglienza sull’Italia (e sulla Grecia) mettendone in difficoltà il sistema di gestione. Fino al 15 luglio 2017 il numero degli arrivi sulle coste italiane era stato superiore di circa il 30% rispetto al 2016, ma dalla seconda metà del 2017 si è registrata una considerevole riduzione degli sbarchi, stimabile in circa il 75%, con una tendenza proseguita anche nei primi sei mesi del 2018 quando sono sbarcati in Italia circa 16.000 migranti, con un calo che si avvicina all’80% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente e con un ritorno a numeri antecedenti al 2014, quando ha avuto inizio l’ultima crisi migratoria.
Il calo delle partenze ha ridotto significativamente il numero assoluto dei morti e dispersi in mare nel Mediterraneo Centrale. È stato registrato tuttavia un aumento importante del rischio di morte durante la traversata, attribuibile in parte ma non solo alle condizioni meteorologiche particolarmente avverse nel periodo invernale. L’aumento proporzionale del numero di morti, che nei primi sei mesi dell’anno ha raggiunto in assoluto le 1.000 unità, sarebbe attribuibile, secondo l’ultimo rapporto UNHCR, al crescente calo di disponibilità di imbarcazioni (navi commerciali o appartenenti a Ong) disposte ad accogliere a bordo persone in difficoltà, e questo a causa dei nuovi codici di condotta e delle misure restrittive e disincentivanti messe in atto dagli Stati, con la conseguente diminuzione delle capacità di ricerca e di soccorso.
L’operato delle Ong e il numero degli sbarchi
Il significativo aumento di partenze e di sbarchi registrato dal 2015 ad oggi non è stato causato, come è stato detto, da un più forte impegno delle Ong (che effettivamente hanno incrementato le operazioni di salvataggio in acque territoriali libiche) bensì da altri fattori, principalmente legati alle attività dei trafficanti. I dati mostrano che non esiste una correlazione tra le operazioni di soccorso in mare svolte dalle Ong (obiettivo recentemente di una campagna generalizzata di discredito e spesso oggetto di critiche, come quella di rappresentare dei “taxi” del mare) e gli sbarchi sulle coste italiane. Negli ultimi mesi — a causa delle politiche di chiusura adottate dall’Italia e da altri Stati e delle difficoltà crescenti con le autorità libiche — praticamente tutte le organizzazioni operanti nel Mediterraneo Centrale hanno progressivamente sospeso le attività di recupero al largo delle coste della Libia e di trasferimento verso i porti italiani, spostando le operazioni nel tratto di mare tra Spagna e Marocco. I dati aggiornati a fine agosto dicono che dei 72.000 migranti raccolti nel Mediterraneo dall’inizio dell’anno, gli arrivi in Italia sono poco meno di 20.000 mentre gli ingressi in Spagna superano le 33.000 unità. I rimanenti sono approdati in Grecia (dati UNHCR).
Il nostro sistema di accoglienza e asilo
La riduzione del numero degli sbarchi ha prodotto evidentemente meno richieste d’asilo, permettendo di colmare la differenza corrente tra le richieste d’asilo presentate e quelle esaminate, fissata la capacità di elaborazione del sistema che è stabile da metà 2015 su 7.000 casi affrontati ogni mese. Il sistema d’asilo rimane tuttavia costantemente sotto pressione, se si considera che le richieste da evadere accumulate negli anni ammonterebbero a circa 150.000 (servirebbe più di un anno e mezzo senza sbarchi per esaminare le richieste arretrate). In Germania il tempo di attesa per avere una risposta era nel 2017 di circa 15 mesi, a fronte però di 50.000 domande valutate al mese.
Continua a leggere
Ricollocamenti e rimpatri
Fino ad oggi i piani di ricollocamento d’emergenza introdotti dall’Unione europea dal 2015 verso altri Paesi (che avrebbero dovuto impegnarsi su base volontaria) si sono rivelati inefficaci: la quota promessa per l’Italia — già bassa (circa il 10% del totale degli arrivi) — non è stata raggiunta a causa delle stringenti condizioni imposte dai governi europei, ad esempio la limitazione di accettare solo migranti di nazionalità con un tasso molto alto di riconoscimento di protezione internazionale (superiore al 75%, che per l’Italia significa poter ricollocare solo i richiedenti asilo provenienti da Siria, Somalia ed Eritrea). In definitiva, il contributo degli altri Paesi nel ricollocare i migranti sbarcati in Italia è quantificabile attorno al 4%. Anche dal punto di vista delle risorse finanziarie, gli aiuti europei sono stati finora piuttosto limitati (nel 2017 solo il 2% delle spese italiane era coperto da fondi Ue). Il tentativo parlamentare europeo di riformare il Regolamento di Dublino, superando il criterio del primo ingresso e introducendo un meccanismo di ripartizione in quote, non ha avuto il sostegno necessario ed è stato bloccato dai Paesi dell’est Europa.
Sul fronte dei rimpatri, quelli effettivi dall’Italia sono molto pochi (tra il 2013 e il 2017 solo il 20% dei migranti regolari raggiunti da un provvedimento di rimpatrio ha lasciato il territorio italiano) e questo dipende prevalentemente dall’assenza di solidi accordi di riammissione con le nazioni di provenienza delle persone espulse (in maggioranza Nordafrica e Africa subsahariana). Con questi numeri — nell’ultimo periodo ulteriormente diminuiti — l’attuale stretta sui permessi per protezione umanitaria imposta dal Ministero potrebbe avere addirittura l’effetto paradossale di aumentare la quota di immigrati irregolari, che oggi si stima attorno a 500 mila unità.
Quanti sono gli stranieri in Italia?
Nonostante il consistente flusso degli anni scorsi, le difficoltà del nostro sistema di gestione e la scarsa solidarietà europea, i numeri della presenza straniera in Italia sono inferiori alla media dell’Europa occidentale. Attualmente risiedono in Italia poco più di 5 milioni di stranieri regolari (8% della popolazione), di cui circa 4 milioni di origine extra–europea (il 6,7%, mentre in Grecia sono l’8,1%, in Germania l’8%, in Francia e Spagna sono l’8,5%). Secondo il Rapporto Eurostat di marzo 2018, si trovano poi sul suolo italiano molti richiedenti asilo (nel 2017 circa il 19.5% del totale europeo) ma, anche in questo caso, l’incidenza dei profughi sul numero di abitanti — 2.089 ogni milione — non è la più alta, anzi è inferiore al dato di altri paesi come Grecia (5.295), Austria (2.526), Germania (2.402), Svezia (2.220) e Malta (3.502).
L’accoglienza grava ovviamente sulle finanze pubbliche nell’immediato, ma il bilancio potrebbe non essere negativo a lungo termine. L’integrazione dei rifugiati è molto più complessa e costosa di quella dei migranti economici, ovvero degli individui che lasciano il proprio Paese per motivi di lavoro. Secondo un’indagine condotta anni fa a livello europeo, questi ultimi raggiungerebbero un tasso di occupazione medio del 79% nei primi cinque anni dall’ingresso mentre per i migranti umanitari il medesimo parametro sarebbe del 26% (60% in 15 anni). Questo ritardo, dovuto anche alle politiche pubbliche o alla scarsa propensione dei datori di lavoro ad assumere dei profughi, comporta inevitabilmente un prolunga mento della permanenza del richiedente asilo all’interno del sistema di accoglienza e quindi un corrispondente aumento dei costi. Considerando che un migrante ospitato e assistito nei centri di accoglienza costa allo Stato italiano circa 11.000 euro all’anno, è sensato intraprendere sforzi per orientare le politiche di accoglienza investendo in capacità di integrazione.
Un fenomeno transitorio?
Non è realistico attendersi nel prossimo futuro una diminuzione della pressione migratoria dall’Africa subsahariana, che al contrario è legata alla crescita demografica di quei Paesi. Se le previsioni dell’Onu sono corrette, la popolazione di queste regioni è destinata a raddoppiare nei prossimi 30 anni (passando dall’attuale miliardo a 2,2 miliardi nel 2050, più o meno la stessa tendenza osservata dal 1990 ad oggi) e, ipotizzando che rimangano invariate sia la tendenza a emigrare (circa il 2,5% della popolazione) sia la propensione a raggiungere l’Europa (destinazione di circa il 25% dei migranti), possiamo attenderci che entro il 2050 approderanno sul nostro continente circa 7,5 milioni di persone.
Un flusso migratorio di tali proporzioni non sarà facilmente arginabile ed è assurdo pensare che possa essere fermato. Le politiche dissuasive, di chiusura e respingimento, possono servire a dirottare il problema altrove ma non certo a risolverlo.
Anche la strategia spesso invocata di “aiutarli a casa loro” non è concretamente praticabile o comunque non avrebbe effetti immediati nemmeno se si erogassero per l’Africa subsahariana aiuti molto ingenti a favore dello sviluppo (cosa che i Paesi Ocse non stanno affatto facendo). Il tasso di emigrazione netta infatti, è stato dimostrato, dipende certamente dal livello di sviluppo economico di un Paese, ma la relazione è tale che, prima che si inneschi un’inversione della tendenza migratoria, il reddito medio pro–capite deve crescere fino a raggiungere un certo livello minimo, che non è atteso nelle previsioni prossime future per queste aree.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 19, NUMERO 3, Settembre 2018