(di Ricki Barone)

Quando muore un artista famoso l’eco è sempre eclatante, ma raramente capita che una morte lasci contemporaneamente un segno e un vuoto così grandi come quelli lasciati da David Bowie (all’anagrafe David Robert Jones) deceduto il gennaio 2016, due giorni dopo aver pubblicato il suo ultimo album “Blackstar”, nel giorno del suo sessantanovesimo compleanno.

Per le sue caratteristiche è stato definito da molti un “camaleonte”, protagonista di diverse svolte musicali, dal cantautorato al R&B, dal rock al soul, dal pop all’hard rock, e artefice di un percorso di contaminazione tra diverse forme artistiche: musica ma anche cinema, teatro e arti figurative. Importanti sono state le sue frequentazioni, in tutte le discipline nelle quali si è cimentato: dalle più importanti stelle del rock, al mimo Lindsay Kamp, ad Andy Warhol, ad attrici come Catherine Deneuve e Susan Sarandon e molti altri. Per questa sua poliedricità, sempre manifestata con estrema naturalezza ed eleganza, è diventato non solo uno dei più significativi artisti rock ma anche un’icona di stile e di trasformismo. Le sue mutazioni e i suoi cambiamenti (Changes) hanno affascinato, sconvolto, scandalizzato, conquistato schiere di fans e di critici, ma sono stati solo la cornice epidermica del suo talento, mai messo in discussione.

Bowie è stato artista di grande inventiva, con una genialità nel saper attingere il meglio dalle varie diramazioni artistiche che lo attiravano, mescolandole e riproponendole in una maniera assolutamente unica e personale, diventando così uno degli artisti più importanti e più influenti degli ultimi decenni. Nella sua lunga carriera, soprattutto nella fase iniziale, le posizioni ambigue ed esplicitamente trasgressive sono state diverse, in particolare quelle circa la sua identità sessuale. Un’ambiguità che poi è progressivamente scemata, il che ci fa dire che il suo utilizzo sia stato in un certo senso strumentale alla necessità di farsi notare, in una fase di grande fermento ed altrettanta concorrenza e in un ambito “particolare” come quello della musica rock, molto sensibile, specie in quegli anni, alla trasgressione.

Time

Con il trascorrere del tempo (Time) David Bowie ha gradualmente dismesso questo suo ruolo di rock star trasgressiva per iniziare un percorso di grande sobrietà ed estremo rigore, affrontando il lavoro in maniera quasi monastica e proponendo interessanti riflessioni sullo sviluppo della società verso forme di alienazione e di decadentismo. Il tutto sempre vissuto con grande serietà e discrezione, come dimostra anche il pudore con cui ha mantenuto un estremo riserbo sulla sua malattia, un cancro che lo ha condotto dopo diciotto mesi alla morte. Una malattia che l’ha colpito quando le forze e le idee erano ancora ben vive, togliendoci la possibilità di godere di altre sue preziose perle.

Nonostante la malattia, Bowie ha vissuto fino all’ultimo con grande entusiasmo e coraggio, intenzionato a portare avanti nuovi progetti, come rivelato all’amico e storico produttore Tony Visconti: «Aveva già scritto — e inciso in versioni demo grezze — ben cinque nuovi pezzi ed era impaziente di tornare in studio per un’ultima volta. Bowie sapeva già da Novembre di essere malato terminale, ma non aveva idea del fatto che gli rimanesse così poco tempo da vivere. Era così coraggioso. La sua energia era incredibile, per essere un uomo che aveva il cancro. Non ha mai mostrato paura». Un uomo, oltre che un artista, certamente misterioso, perennemente alla ricerca di qualcosa di profondo e allo stesso tempo di estremamente elevato.

È molto pertinente a questo proposito il tweet di commiato del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, che ha citato Space Oddity, il primo grande successo di David Bowie (che evoca il film 2001 Odissea dello spazio): «Torre di Controllo a Maggiore Tom comincia il conto alla rovescia, accendi i motori, controlla l’accensione e che Dio ti assista». Il messaggio è stato rilanciato in tutto il mondo come una sorta di tributo del Vaticano al padre del Glam Rock (dall’inglese glamour: eleganza, fascino, sensualità). Anche L’Osservatore Romano ha avuto parole benevole verso David Bowie, defi nito come una personalità musicale «mai banale, via via costruita grazie alle frequenti incursioni in altre forme artistiche — prima tra tutte la pittura, ma anche cinema e teatro — e grazie all’apertura a innumerevoli suggestioni». Scrive poi L’Osservatore Romano: «Cinque decenni di musica rock attraversati con un rigore artistico che può sembrare in contraddizione con l’immagine ambigua utilizzata, soprattutto a inizio carriera, per attirare l’attenzione dei media. Si potrebbe anzi affermare che, aldilà degli eccessi apparenti, l’eredità di David Bowie, morto il 10 gennaio a 69 anni, è racchiusa proprio in una sorta di personalissima sobrietà, espressa finanche nel fisico asciutto, quasi fi liforme». Anche il primate anglicano, Justin Welby, ha ricordato come la musica di Bowie «abbia costituito una sorta di colonna sonora personale».

Certamente, nel caso di Bowie e in genere quando si parla di artisti, è da evitare la “santificazione”, gli artisti non sono da considerare come maestri di etica o di pensiero, e il metro di giudizio più valido è quello di considerarli a partire dalla loro arte, che è, quasi paradossalmente, spesso più veritiera della loro stessa persona. L’artista è sempre un prolungamento del Creatore, opera per conto di, e quando l’artista muore e la sua presenza terrena ci viene a mancare, ciò che ha saputo “creare”, la sua “opera d’arte”, non solo rimane ma rinasce ed acquisisce ancora maggior forza, per ragioni che possiamo definire senza timore spirituali prima ancora che sentimentali. È questo il Mistero che abita in ogni espressione artistica.

Ciò che stupisce di David Bowie è stato il suo continuo slancio verso la dimensione ultraterrena, come se il suo tragitto su questo mondo fosse solo una fase della sua esistenza. Se scorriamo l’elenco delle sue canzoni troviamo continui riferimenti allo spazio, alle stelle e ai pianeti (Space Oddity, Life on Mars, Moonage Daydream, Star, Starman, Ziggy Stardust, Lady Stardust, The Stars (are out tonight?), Blackstar), come se fossero il riflesso del desiderio continuo di indirizzare lo sguardo verso l’alto, nel cielo, alla ricerca di un contatto oltre la realtà terrena.

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Heroes

Leggiamo di nuovo L’Osservatore Romano: «Partito dal beat inglese della metà degli anni Sessanta, Bowie, nei suoi venticinque dischi ha spaziato dal soul al R&B, dal folk al glam rock. Realizzando anche alcune vere perle, come Heroes, un semplice inno rock dedicato ai ragazzi della Berlino ancora separata dal muro. E riuscendo a suscitare un consenso crescente nel corso degli anni». Proprio Heroes è probabilmente il suo brano più noto, title track di un album che rientra nella sua famosa trilogia berlinese, che comprende gli album Low – Heroes – Lodger.

C’è chi sostiene che i protagonisti della canzone siano lo stesso David e una ragazza conosciuta durante le sessioni di registrazione del disco. Può essere, ma non è fondamentale saperlo. È molto più importante cogliere invece il senso di una canzone universale, divenuta un inno per le nuove generazioni. Un inno all’amore irriducibile e inseparabile, alla glorificazione di come un gesto d’amore riesca a dilatarsi all’infinito sciogliendo anche il ghiaccio più resistente. Un abbraccio sotto il muro di Berlino, caduto nel 1989 ma all’epoca, era il 1977, simbolo di una divisione non solo geografi ca e sociale ma ancor prima umana, voluta da chi aveva smarrito il significato della parola Uomo.

«Io, io sarò re/ E tu, tu sarai la regina/ Sebbene niente li porterà via/ Li possiamo battere, solo per un giorno/ Possiamo essere Eroi, solo per un giorno… Possiamo batterli, ancora e per sempre/ Oh possiamo essere Eroi,/ anche solo per un giorno».

Un gesto d’amore è per sempre, anche se è solo di un istante, e nulla potrà mai sconfiggerlo: pare essere questo il significato di una canzone senza vincoli spaziali e temporali. Ma Heroes rappresentava anche il simbolo dell’onnipotenza musicale di Bowie, che in quegli anni era idolatrato da migliaia di fans in tutto il mondo, condensando in sé tutti i pregi richiesti dalla società dello spettacolo: fascino, bellezza, classe, stile, grinta, trasformismo e quell’alone di trasgressione e di “sintomatico mistero” che non possono mancare in una vera rock star.

Gli anni però scorrono inesorabili e impietosi anche per le icone del rock e così Bowie, pur rimanendo sempre unico e fascinoso, declina gradualmente a causa di alcune prove artistiche meno significative, senza rinunciare comunque a qualche graffi o d’autore. Nel contempo però recupera la felicità della dimensione familiare (si risposa a Firenze nella chiesa episcopale di St. James con la principessa somala Iman nel 1992, avranno poi una figlia — Alexandria Zahra Jones — oggi quindicenne) e quella vita “normale” che gli trasmettono la serenità mai goduta. Gli ultimi episodi della sua carriera segnano il ritorno ad una qualità musicale elevata, con The Next Day (2013), titolo emblematico del suo desiderio di ripartire rimettendosi a nudo e — finalmente — senza maschera.

Blackstar

L’ultimo disco, “Blackstar”, pubblicato l’8 gennaio 2016, due giorni prima della sua morte, sembra voler essere l’ultimo colpo di scena di un artista che ha sempre amato sorprendere. In realtà, più che un colpo di teatro, questo album costituisce realmente il suo testamento artistico, concepito da un artista malato che descrive la sua condizione e inevitabilmente si pone di fronte alla morte, sia nelle liriche sia nei suoni cupi e angoscianti. In Lazarus, titolo non casuale evidentemente, canzone ma anche spettacolo teatrale, pubblicata come secondo singolo dell’album, David Bowie canta:

«Guardate lassù, sono in Paradiso/ Ho cicatrici che non possono essere viste/ Ho il dramma, che non può essere rubato/ Mi conoscono tutti ora/ Guarda qui, amico, io sono in pericolo/ Non ho più niente da perdere/ Sono così in alto che il mio cervello è in un vortice».

Nel videoclip del brano Bowie è il protagonista, malato e a letto in ospedale, che mostra senza nulla nascondere la sua malattia, facendo passare attraverso la canzone la sofferenza che prova un malato terminale. Paradigmatica è la conclusione del video, con Bowie che chiude dietro di sé la porta dell’armadio nel quale va a infilarsi, come un morente che si accomoda nella sua bara. Nel brano Blackstar David Bowie canta:

«Il giorno in cui è morto è successo qualcosa/ Lo spirito è salito di un metro e si fece da parte/ Qualcun altro prese il suo posto, e coraggiosamente urlò (Sono una Stella Nera, sono una Blackstar)/ Quante volte cade un angelo?/ Quante persone mentono invece di parlare di fatti scomodi?/ Egli calpestò una terra consacrata, gridò rumorosamente in mezzo alla folla (Io sono una Blackstar, sono una Blackstar, io non sono un membro di una banda)».

Parole che paiono inequivocabili, il che evidenzia la sua dimensione se non religiosa sicuramente, come lui stesso la definì, spirituale. Un grandissimo artista, che ci lascia una straordinaria eredità e come lascito un album potente come Blackstar, nel quale David Bowie non gioca più a fare la rock star, ma si cala completamente e coscienziosamente nel suo status di uomo che sa che il suo destino ora è affidato all’eternità. Ancora una volta, purtroppo però l’ultima, David Bowie dimostra di essere molti passi avanti rispetto a tutti gli altri suoi colleghi.

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 17, NUMERO 1, Marzo 2016