(P. Antonio Maria Sicari ocd)

Solitudini
L’uomo può esperimentare la solitudine sia quando si sente abbandonato da tutti (e perfino “superfluo”), sia quando si trova immerso nel vortice di relazioni sempre più mutevoli e inquiete, sia quando esperimenta la gioia di un amore ricambiato che inizia ad appagarlo, ma non riesce mai a saziarlo. Anzi è proprio quando desidererebbe gustare la più intima comunione che egli scopre quell’«ultima solitudo» (di cui parlava Giovanni Duns Scoto) che non consente mai la totale comunicabilità della propria persona. In tal caso, però, quest’«ultima solitudine» non è più frustrazione, ma scoperta di quella infinita dignità e originalità che Dio ha impresso in ogni creatura umana, riservandola a sé stesso.
La certezza del Padre
Sulla terra solo la Persona Divina di Gesù ha potuto far gustare alla sua natura umana un certo appagamento di quest’ultima solitudine, ma – proprio per questo – ha anche sentito più dolorosamente i tradimenti che ha patito. Nell’ultima sera della sua vita gli venne riservata la più triste solitudine: quella dell’imminente abbandono dei suoi discepoli. E tuttavia Egli sapeva di restare sempre in sostanziale compagnia con il Padre celeste.
Perciò disse loro: «Ecco viene l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto proprio e mi lascerete solo; ma io non sono solo perché il Padre è con me… Vi ho detto questo affinché abbiate pace in me» (Gv 16, 32-33).
Ed è consolante per noi sapere che, poco prima, Egli aveva già voluto donare la stessa “certezza del Padre”, anche ai discepoli che stavano per abbandonarlo, promettendo loro: «Non vi lascerò orfani, ritornerò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; Voi invece mi vedrete perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre, e voi in me e io in voi» (Gv 14, 18-19).
A rileggere tutto il lungo discorso di Gesù, ci si accorge che nella Sua solitudine (che sta per diventare anche quella dei discepoli) è sempre implicato anche il Padre, a cui Gesù chiede di non lasciarci “orfani”, e affida questa Sua preghiera (che sulla Croce Lo riguarderà anche personalmente!) allo Spirito Santo.
«Non vi lascerò orfani»
Nello stesso discorso di addio, sono due gli aspetti che continuamente si alternano, e non sempre è facile riuscire ad afferrare la loro concatenazione.
La prima questione riguarda la necessità che Gesù se ne vada (ritornando al Padre) per poter mandare lo Spirito Santo: «Ora io vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò» (Gv 16,7). A volte Gesù dice ai discepoli che Lui pregherà il Padre perché mandi «un altro Consolatore che rimanga sempre con loro» (Gv 14,16.26), a volte dice che sarà Lui stesso a mandarlo da parte del Padre (Gv 15,26; 16,7). In ogni caso annuncia loro che, in seguito, sarà sempre lo Spirito a guidarli, ricordando loro i Suoi insegnamenti e sostenendoli nella testimonianza che dovranno darGli nel mondo (cfr. Gv 16,13-15).
La seconda questione riguarda il fatto che, da questa venuta dello Spirito, dipenderà il fatto che ogni credente “possa diventare “per grazia” quello che Gesù è “per natura”: Figlio del Padre. Più tardi l’Apostolo Paolo spiegherà ai cristiani: «L’Amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rom 5,5). Di conseguenza, «tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio… Avete ricevuto uno spirito da figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo “Abbà, Padre!”, Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio» (Rom 8,14-16).
È in questo senso assolutamente realistico che Gesù si è preoccupato di “non lasciarci orfani”: di non abbandonarci nella terribile solitudine di chi non ha più radici e non ha più famiglia e non ha più identità.
Gesù abbandonato in Croce
Paradossalmente, Egli ci ha ottenuto questo dono proprio accettando di esperimentare l’abbandono della Croce, così profondo e radicale che, per un istante, Gli ha messo nel cuore e sulle labbra il grido estremo: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46; Mc 15,34). Grido che dovrebbe riempierci di preoccupazione e di angoscia, se non sapessimo che è l’inizio del Salmo 22, un’antica preghiera (tratta dal profondo dell’umana miseria) che prelude al più totale affidamento filiale: «Sei tu che mi hai tratto dal grembo, mi hai fatto riposare sul petto di mia madre. / Al mio nascere tu mi hai raccolto, dal grembo di mia madre sei tu il mio Dio» (Sal 22, 10-11).
Ma quello che ci deve lasciare davvero “abbandonati” (ma questa volta nel senso bello e pacificato con cui un bambino si abbandona nelle braccia di chi lo ha generato) è il fatto che così siamo attirati nel seno stesso della Trinità, là dove le tre Persone Divine (e, per grazia, anche ogni creatura umana) hanno la Loro dimora. È necessario allora un istante di contemplazione trinitaria.
Ormai conosciamo bene il volto del Figlio che “è venuto ad abitare in mezzo a noi”, assumendo anche la nostra umana natura e, in Lui e con Lui, conosciamo bene anche il volto del Padre. Il discepolo Filippo se lo è sentito ricordare con forza: «Chi vede me, vede il Padre» (Gv 14,9).
Lo Spirito Santo, invece, lo conosciamo solo attraverso immagini e simboli familiari (“colomba”, “respiro”, “fuoco”, “luce”, “acqua viva”, “bacio”) che ci permettono di identificarlo come Persona-Dono, Persona-Comunione, Persona-Amore. Lo conosciamo, cioè, soprattutto dal suo agire su di noi in maniera “vivificante”, come “Signore e Datore di vita”.
Lo Spirito: abbraccio tra Padre e Figlio
Se dunque osserviamo quella Sua azione che maggiormente ci riguarda (e riguarda l’intera creazione), dobbiamo forse preferire l’immagine dell’abbraccio. Nella Trinità, se il Padre è proteso ad abbracciare il Figlio, e il Figlio è proteso a ricambiare l’abbraccio del Padre, dobbiamo dire che lo Spirito Santo è la personificazione stessa del loro abbraccio.
Ma ciò non basta ancora. Dobbiamo subito aggiungere che, fin dalla fondazione del mondo, è lo Spirito Santo che apre tale divino abbraccio all’intera creazione per accoglierla e stringerla a Sé. Ancor più ciò vale per l’intera umanità, e per l’intera storia umana che viene così resa sacra. E vale per ogni singola creatura umana che, in quanto persona, rappresenta per le Persone divine la maggiore attrazione: il punto d’arrivo ultimo del Loro Amore.
È in questo senso che, nella nostra storia, lo Spirito Santo è ed è stato sempre in azione. Quasi sempre in maniera nascosta e per noi inavvertita, ma con forza evidente nei momenti cruciali della Storia Sacra. Nascondimento e forza si sono infine congiunte nella delicatezza con cui lo Spirito ha adombrato la Vergine Maria per il concepimento umano del Figlio di Dio, riempiendola di grazia e contagiando via via tutti i protagonisti, a Nazareth e a Betlemme, fino al momento in cui si posò in maniera continua su Cristo, fin dall’inizio della Sua missione pubblica, impregnando interamente i Suoi miracoli, i Suoi insegnamenti, le Sue preghiere, le Sue gioie e le Sue pene. Morte e Resurrezione furono l’atto decisivo di Gesù per trasmettere a noi il Suo Spirito: dono promesso durante l’ultima cena, realizzato al momento della morte in Croce (il Vangelo dice volutamente che Gesù “emisit Spiritum, dopo aver chinato il capo”, in modo che il suo spirito scendesse fisicamente su chi stava ai piedi della Croce) e lo effuse nuovamente la sera di Pasqua, quando disse: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. «Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi» (Gv 20,21-22).
Seguirono quaranta giorni di conversazione familiare tra Gesù e i Suoi amici. Poi l’Ascensione. Poi dieci giorni di preghiera in attesa della Pentecoste, quando lo Spirito sarà solennemente effuso su tutta la prima Chiesa.
L’azione dello Spirito nella Chiesa
Giungiamo qui al punto più alto dove si rivela la missione definitiva e ininterrotta dello Spirito Santo.
Hans Urs von Balthasar (nel suo Abbozzo sulla Teologia della Storia, ed. Morcelliana, 1969) ha spiegato chiaramente il contenuto decisivo di questa rapida successione di avvenimenti.
I “quaranta giorni dopo la Risurrezione” servono per mostrare la concretezza anche fisica del Corpo Risorto di Gesù, per inculcarla nella mente e nel cuore dei discepoli e per mostrare quale sarà, da quel momento in poi – il loro rapporto: non soltanto Cristo è con loro, ma anche in loro. E loro in Lui. Ciò è possibile mediante l’azione dello Spirito Santo. Quel che accadde in quei giorni (soprattutto a Maria Maddalena, a Tommaso, ai discepoli di Emmaus, a Pietro) ha proprio il significato di mostrarci fino a che punto lo Spirito Santo continui a donare Gesù Risorto, e Gesù Risorto continui a donare lo Spirito Santo: «Egli si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre “quella, disse, che voi avete udito da me: Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo, fra non molti giorni”» (At 1,3-5).
Così fino all’Ascensione, quando Gesù poté finalmente garantire ai discepoli, con tutto il necessario realismo: «Ecco, Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28-20).
Essi dovettero aspettare ancora il compimento del “cinquantesimo giorno” (quando gli ebrei festeggiavano il compimento dell’Alleanza), per ottenere – tutti riuniti in preghiera assieme a Maria nel Cenacolo – il miracolo del prolungamento ecclesiale dell’Incarnazione.
Rendere Cristo norma universale
Qui, però, è necessario riflettere molto attentamente: il passaggio dal tempo di Cristo al tempo della Chiesa (sua Sposa e Suo corpo) non è basato semplicemente su una continuità temporale (come accade quando si ereditano dei doni, ai quali son legati dei compiti da svolgere o una missione da continuare). Compito dello Spirito è rendere continuamente e universalmente presente Cristo stesso: metterlo continuamente in contatto con ogni tempo e ogni luogo, con ogni uomo e con ogni vocazione.
Dire che viene prolungata e universalizzata l’Incarnazione (grazia che i Santi imploravano proprio pregando lo Spirito Santo) non è un modo di dire: è la descrizione di come vive e si realizza la Chiesa dovunque viene accolto l’Amore versato dallo Spirito (il che accade anzitutto nei cuori credenti) e dovunque viene oggettivamente assecondato il Suo lavoro per connettere vitalmente la storia personale di Cristo alla storia umana: anzitutto a quella di ogni fedele e perfino a quella di ogni uomo.
San Paolo descrive addirittura lo Spirito Santo intento a rilevare e assumere “l’attesa e il gemito dell’intera creazione”: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio… Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme soffre fino ad oggi nelle doglie del parto. Essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello spirito, gemiamo interiormente aspettando ardentemente l’adozione, a figli la redenzione del nostro corpo. Siamo stati infatti salvati nella speranza… Lo Spirito stesso intercede di persona nostro favore con gemiti inesprimibili» (Rom 8, 19-24.26).
In altre parole: lo Spirito Santo è ormai diventato l’anima della Chiesa e l’anima della nostra anima.
L’ancoraggio eucaristico
L’oggettività di questa azione dello Spirito (che rende universalmente normativo, un particolare storico: quello della natura umana di Cristo, così ben datato e “limitato”) è garantita soprattutto dai Sacramenti: tutti destinati a stabilire a donare al credente quella “contemporaneità” con Cristo di cui questi ha assoluto bisogno. Contemporaneità che diventa totale nel sacramento dell’Eucaristia che mette in contatto l’intera corporeità di Cristo con l’intera corporeità del credente.
Non c’è sulla terra momento più solenne e commovente di quando il sacerdote chiede al Padre celeste di voler inviare ancora, a tale scopo, lo Spirito: «Manda il tuo Spirito a santificare i doni che ti offriamo, perché diventino il corpo e il sangue di tuo Figlio e nostro Signore». Allo stesso modo in cui è chiesto: «Guarda con amore / e riconosci nell’offerta della tua Chiesa / la vittima immolata per la nostra redenzione; / e a noi che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo / perché diventiamo in Cristo / un solo corpo e un solo spirito».
Compito fondamentale dello Spirito è, dunque, quello di donarci ogni giorno il Corpo Sacrificato di Cristo: ed è nell’Amen con cui ogni singolo fedele lo accoglie in sé, che viene celebrata la Risurrezione. Ma ciò vuol dire anche che la Resurrezione di Gesù – finché durerà la storia – non sarà mai una pagina successiva a quella della Sua morte in Croce. Non potremo mai “voltare pagina”! Possiamo solo continuare ininterrottamente ad «“annunciare la Sua morte” in modo da poter “proclamare la Sua Risurrezione”». Ed è in tale annuncio-proclamazione dell’Amore invincibile (che la Croce ci ha donato e continua a donarci), che riceviamo ogni giorno l’amorosa eredità lasciataci da Cristo.
Di questa eredità fanno parte: la Sua “Presenza in mezzo a noi”; la Sua Parola, il Suo Sacerdozio; i Suoi gesti sacramentali; il diritto di invocare Dio come “Padre nostro” (e di comunicarlo ad ogni creatura); la totale comunione («essere un solo cuore e una sola anima»); il dono di una stessa Madre…
L’amore va sempre alla persona unica
Un’ultima questione, che soltanto lo Spirito può risolvere, è quella di come possa l’Amore totale di Dio (che ha la caratteristica di essere “Personale” perché solo questo è connaturale a Dio”) essere donato contemporaneamente all’intera umanità e all’intera Chiesa, ma anche ad ogni uomo, e “alla mia singola persona”.
In un volume di rara profondità (Nello Spirito Santo, pubblicato dalla sua Fondazione D.B. nel 1998), Divo Barsotti ha scritto alcune pagine paradossali (e forse perfino impossibili da spiegare), ma non difficili da comprendere e da vivere, almeno se ci si affida allo Spirito Santo, il cui compito è appunto quello di rendere assolutamente personale ciò che è interamente “comunionale”: «Dio ama la creazione, la Chiesa in me, non può amarla indipendentemente da me: l’amore personale di Dio termina in una persona e io sono questa persona, e ognuno di noi deve realizzare questo fatto: che tutta l’opera della redenzione non termina nella creazione, non termina nella storia, ma in ogni uomo. […] Sono pazzo? Si ha l’impressione di sì… ma la pazzia non è credere nel valore assoluto della persona umana, è credere all’amore di Dio, è credere che Dio ci ama» (pp. 105-107).
D’altronde penso che, solo fidandosi dello Spirito Santo, la piccola Teresa di Lisieux abbia osato introdurre la sua Storia di un’anima proprio con questo giudizio: «Come il sole rischiara allo stesso tempo i grandi cedri e ogni piccolo fiore, come se ciascuno fosse solo sulla terra, così Nostro Signore si occupa in particolare di ciascuna anima, con tanto amore come se fosse unica al mondo… E come nella natura tutte le stagioni sono regolate in modo da far sbocciare nel momento stabilito anche la più umile pratolina, così tutto è regolato in modo da corrispondere al bene di ciascuna anima» (Prologo)». E soltanto una premessa così assoluta le ha permesso di trovare poi la propria personalissima vocazione: «Capii che la Chiesa aveva un Cuore, e che questo Cuore era bruciante d’Amore… nel Cuore della Chiesa, mia Madre, io sarò l’Amore… così sarò tutto… così il mio sogno sarà realizzato!!!”. (Manoscritto B, 3v).
È l’amore che fa crescere l’amore
Resta tuttavia nel Vangelo di S. Giovanni una affermazione, la cui comprensione ha affaticato a lungo perfino S. Agostino, che vi scorgeva “una quantità di difficili questioni”. È il brano in cui Gesù, introducendo la promessa dello Spirito Santo, dice: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti. Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché egli dimora presso di voi e sarà in voi» (Gv 14,15-17).
Il Santo Dottore, nel suo Commento osserva ripetutamente che Gesù sembra giocare con le parole, dato che “ordina ai discepoli, prima di tutto di amarlo e di osservare i suoi comandamenti, per poter poi ricevere lo Spirito Santo, senza il quale non possono né amarlo né osservarne i comandamenti” (Discorso LXXIV).
La soluzione è tuttavia semplice: i discepoli ai quali Gesù parla Lo amano già, anche se poveramente e timidamente (siamo nella sera della Passione!), e quindi hanno già in sé lo Spirito Santo, e “siccome lo hanno, meritavano di averne ancora di più”. Insomma. si era già instaurato quel processo infinito dell’amore che, per quanto sia inizialmente piccolo, trova lo Spirito già all’opera: «l’Amore tende sempre a un di-più d’amore» e «più si ama, più l’amore cresce».
San Giovanni della Croce diceva che questo anelito all’uguaglianza d’amore (“amare Dio con lo stesso amore con cui Lui ci ama”) l’anima lo percepisce da sempre “perfino naturalmente”. E quando l’anima giungerà a volersi donare interamente al suo Sposo Gesù, non le resterà altra possibilità che «offrirGli come cosa propria lo Spirito Santo, affinché Egli ami se stesso quanto merita…» (Fiamma d’amor viva, 3,79).
È in questo modo che, alla fine, si chiude l’abbraccio trinitario, rallegrando sia Dio che le Sue creature. E si realizza così la splendida solitudine comunionale del loro “cuore a cuore”.
E alla fine capiremo che qualsiasi solitudine ci abbia fatto soffrire, portava sempre con sé un lieve tocco di Spirito Santo.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 21, NUMERO 1, Giugno 2020