(di P. A. M. Sicari ocd)

Gesù ha voluto risorgere e salire al cielo mantenendo nel Suo Corpo le “gloriose ferite” che testimoniano “nel modo più eloquente il Suo immenso amore per noi” (Enciclica Haurietis aquas, 1956).

L’immagine dell’apostolo Tommaso — invitato a “mettere il dito nel posto dei chiodi e la mano nel suo costato ferito”, e che reagisce con una impetuosa e totale professione di fede (“Mio Signore e mio Dio!” – Gv 20,27–28) — non è diventata l’icona dei dubbiosi, ma quella di tutti i cristiani innamorati. D’altronde Gesù stesso ci aveva garantito in anticipo il dono di poter sempre “volgere lo sguardo a Colui che abbiamo trafitto” (Gv 19,37), per poter riconoscere nella “Sua carne gloriosa la nostra stessa carne ferita e redenta.

Giustamente S. Pietro Crisologo ha messo in bocca al Cristo Crocifisso questo invito accorato:

“Vedete, vedete in me il vostro corpo, le vostre membra, le vostre viscere, le vostre ossa, il vostro sangue; e se temete ciò che è proprio di Dio, perché non amate almeno ciò che appartiene a voi? Se fuggite il Signore, perché non ricorrete al Padre? Ma forse vi turba l’atrocità della mia passione, di cui siete stati gli autori. Non turbatevi. Questa croce non è un tormento per me, ma per la morte. Questi chiodi non mi provocano dolore, ma fanno penetrare più profondamente in me l’amore per voi. Queste ferite non suscitano i miei lamenti, ma piuttosto introducono voi nel mio cuore. Lo stiramento del mio corpo si allarga in grembo per voi, non aumenta la mia pena. Il mio sangue non è perduto per me, ma è serbato per il vostro riscatto. Venite, dunque, tornate, e in tal modo esperimentate il Padre che vedete rendere bene per male, amore in cambio di ingiurie, in cambio di così grandi ferite una carità così ardente” (Discorso 108).

Lo sguardo dei Santi innamorati

Quanto siano diventate “preziose e gloriose” le ferite d’amore del Figlio di Dio fatto uomo, lo hanno percepito tutti coloro che se ne sono innamorati, al punto che non mancano Santi e Sante che le hanno potute contemplare perfino riprodotte nel proprio stesso corpo.  Le stimmate di San Francesco d’Assisi sono le più celebri, ma ecco come le spiegava (quasi “scientificamente”) un altro Francesco (di Sales) ugualmente innamorato:

«Quanto grande doveva essere la tenerezza di San Francesco, allorché vide l’immagine di Nostro Signore, immolato sulla croce! L’anima così commossa, intenerita e quasi trasfusa in tale amoroso dolore, si trovò assai disposta a ricevere le impressioni e le stimmate dell’amore e del dolore del sommo Suo Amante. Poiché la memoria si stemperava tutta al ricordo di quel divino amore, l’immaginazione era fortemente applicata a rappresentarsi le ferite e le lividure che gli occhi contemplavano in quel momento, e l’intelletto riceveva le figure vivissime che l’immaginazione gli forniva e da ultimo l’amore usava tutte le forze della volontà per conformarsi alla passione del Diletto; così l’anima si trovava senza dubbio trasformata in un secondo Crocifisso. Allora l’anima, come forma del corpo, usando il suo potere impresse il dolore delle piaghe delle quali era ferita nei singoli luoghi corrispondenti a quelli in cui le aveva sentite l’Amato suo. L’amore è ammirabile nell’acuire l’immaginazione affinché essa penetri fino all’esterno» (Trattato dell’amor di Dio: Libro VI, c. 15). E concludeva: «L’amore, dunque, fece trasparire all’esterno del grande amante S. Francesco gli interni tormenti, e ferì il corpo con lo stesso dardo di dolore che gli aveva ferito il cuore» (ivi).

E come pensare a S. Chiara d’Assisi, se non la si immagina nell’atteggiamento così descritto dal primo biografo Tommaso da Celano: «Sembrava che avesse sempre Gesù Crocifisso tra le braccia, mentre lo copriva di baci e lo bagnava di lacrime»

Il Beato Giordano di Sassonia (primo successore di San Domenico) alla beata Diana di Andalò nel 1236: «Leggi quel libro che hai sempre davanti agli occhi della tua anima, quel libro della vita, quel libro della legge immacolata che converte le anime… È la legge della Carità, e tu la troverai scritta con meravigliosa bellezza ogni volta che contemplerai Gesù, tuo Salvatore, come pergamena scritta con le sue ferite e miniata con il suo sangue».

S. Ignazio di Loyola amava ripetere un antico canto medievale — oggi molto diffuso — che contiene l’invocazione: “Nelle tue piaghe nascondimi!” (“intra vulnera tua absconde me!”), nella quale sono sintetizzate innumerevoli devozioni e preghiere popolari.

E S. Alfonso Maria de Liguori nella sua Pratica di amar Gesù Cristo suggeriva al credente di rinnovare spesso questa presa di coscienza: “Signore, sento che ogni tua ferita mi domanda amore”.

Ci sono poi altri Santi (come S. Giovanni di Dio, S. Camillo de Lellis, S. Vincenzo de Paoli, S. Damiano de Veuster, S. Teresa di Calcutta e mille altri) che hanno vissuto la stessa esperienza mistica, ma in forma indiretta, anche se ugualmente intensa: imparando a contemplare le ferite gloriose di Gesù Crocifisso nel corpo dolorante e lacerato dei malati di cui si prendevano cura; e altri ancora che Lo accoglievano e Lo consolavano nei penitenti che accoglievano in confessionale.

E sono innumerevoli quei Santi che hanno saputo venerare le piaghe di Gesù, accudendo semplicemente a un familiare bisognoso, come accadde alla giovanissima beata Chiara Badano quel giorno che, rimasta sola in casa, dovette accompagnare il nonno malato ai servizi: mentre il povero vecchio le pesava addosso, la ragazza pensava con tenerezza: “Sto accompagnando Gesù che mi si è abbandonato sulle spalle!”.

Insofferenza alle piaghe quotidiane?

Ma qui è necessario uno stacco durissimo, perché segna piuttosto una lacerazione. Se è vero che tutti noi cristiani siamo chiamati alla santità (cioè: alla “perfezione della carità”); se è vero che tutta la nostra vita appartiene a Gesù, al punto che dovremmo sapere e voler dire con San Paolo: “Per me vivere è Cristo!” (Fil 1,21); se è vero che dobbiamo imparare ad “avere gli stessi sentimenti di Cristo” (Fil 2,5) e perfino “il Suo stesso pensiero” (1 Cor 2,16); se è vero che apparteniamo tutti al Suo unico Corpo mistico (la Chiesa), che siamo membra gli uni degli altri; se è vero che siamo (gli uni per gli altri) un prolungamento dell’umanità di Gesù; se è vero che i nostri più stretti legami d’amore sono addirittura fondati su dei sacramenti  (o “mezzi di grazia”: il Matrimonio, il Battesimo, il Perdono dei peccati); se è vero che il nostro linguaggio dovrebbe essere educato dall’abitudine alla preghiera, come può accadere che perfino gli sposi cristiani, col passare del tempo, diventino sempre più “in–sofferenti”, sempre più incapaci di sopportare e valorizzare le pene che reciprocamente e inevitabilmente si infliggono?

Un cristiano sa di essere “responsabile delle ferite” che egli infligge a Cristo con i suoi peccati e che Gesù rende gloriose col suo Amore, e perciò si accosta senza timore al sacramento della Confessione, sicuro del perdono.  Non si aspetterà, dunque, mai di incontrarvi un Gesù che decide di “separarsi” da Lui o di chiedere “lo scioglimento del vincolo nuziale”. Ogni anima cristiana sa che, ad ogni confessione sacramentale, chiede umilmente a Gesù di rinnovare con lei l’alleanza nuziale. E sa che mai Gesù le chiederà separazione o divorzio. Sarebbe come se Egli rinnegasse la Sua Passione (nel doppio significato di patimento e di commozione amorosa).  Questo è ciò che accade sempre nel sacramento della Penitenza, degnamente celebrato.

Come mai si ritiene che questa indissolubile fedeltà non sia ugualmente presente nel sacramento del Matrimonio? Lo stesso accade — se pur ad altri livelli — in quel sacramento più onnicomprensivo che è la Chiesa dove le ferite d’amore sono sempre guarite e impreziosite dalla carità. Come mai si dà per scontato che ciò non debba accadere nel sacramento che è la famiglia e/o la comunità cristiana? Che altro è la misericordia da tutti invocata e sperata se non l’arte di rendere preziose le ferite dell’amore, come sanno fare certi artigiani giapponesi quando restaurano un vaso di preziosa ceramica che si è infranto, saldando assieme i frammenti con oro o argento liquido?

Chiediamoci allora: nelle nostre famiglie (e in tutti i nostri rapporti) quanto amore viene sciupato, ogni giorno, perché non sa tramutarsi in instancabile perdono?

Sono domande che diventano sempre più urgenti e necessarie.  Tanto più che, al fondo, esse rivelano una verità sconvolgente che un antico autore spirituale esprimeva così: «Chi non si innamora di un Dio crocifisso per noi, non si innamora mai».  Nemmeno di una creatura. Forse tanti innamoramenti si rivelano alla fine inconsistenti perché è sempre mancato questo iniziale fondamento.

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 18, NUMERO 1, Aprile 2016