(di P. Antonio Maria Sicari ocd)

 

Cercando la verità: dubbi o domande?

La ragione misura di tutte le cose” è stato lo slogan pretenzioso di tutti i razionalisti. Ma costretti ad escludere ciò che la ragione non riusciva a misurare, finivano sempre per trasformare la ragione stessa in una gabbia, privandola di mille energie conoscitive. Pensavano che la ragione dovesse essere una stanza e non s’accorgevano che era costituita da molteplici porte e finestre aperte sull’infinito. Cercavano di ingrandire la stanza, litigando per riuscire a stiparla di altri oggetti, ma più la ingombravano più essa sembrava rimpicciolirsi. 

Così, per riacquistare una parvenza di infinità, teorizzarono il dubbio sistematico e una continua “ricerca”, ma nella convinzione che non ci fosse da ritrovare alcunché, al di fuori di ciò che già la stanza conteneva. Ci si limitava perciò a escogitare nuove combinazioni degli stessi oggetti. I più patetici sono, ancor oggi, coloro che pretendono di salvare la dignità della ragione umana impegnandola in una “ricerca continua” che non deve mai pretendere d’aver trovato qualcosa. Tale ricerca dovrebbe essere stimolata dal dubbio perpetuo, meglio se un po’ blasé (un po’ “logoro”, un po’ “annoiato”, un po’ “sazio”, un po’ “vissuto”).

In un breve “romanzo drammatico”, scritto a forma di dialogo, vengono messi a confronto un “professore bianco” che ha appena tentato il suicidio e un povero nero che lo ha salvato dalle rotaie del Sunset Limited. Sul tavolo — nella misera cucina del nero — c’è una Bibbia.

— «Ma lei crede in tutto quello che sta scritto lì dentro?», ironizza il professore.

Il nero ammette di avere delle difficoltà, ma sorprendentemente precisa: 

«Io non sono uno che dubita, però sono uno che fa domande».

— «E che differenza c’è?», obietta il professore bianco.

— «Beh, secondo me, chi fa domande vuole la verità, mentre chi dubita vuol sentirsi dire che la verità non esiste», ribatte il nero.

(C. McCarthy, Sunset Limited, Einaudi, 56)

In una sola battuta è descritto il vizio profondo di molti intellettuali salottieri.

 

 

La ragione e il mistero

La ragione protesa a tutte le cose”, anche a quelle che la superano da ogni parte, è stato, invece, il principio glorioso di tutti i veri filosofi, innamorati della Verità.  Una tale ragione ritiene doveroso cercare instancabilmente; e anche dubitare, per essere accurati nella ricerca.  Ma ritiene anche beatificante il fatto di accendersi e di vibrare di commozione ogni volta che le accade di sfiorare il mistero. Ed è naturalmente convinta che sia ragionevole cercarne la manifestazione. Come è naturalmente convinta che sia sommamente ragionevole (anzi, gloriosamente ragionevole) accoglierne la rivelazione, se essa viene donata.

E quando Dio, l’Assoluto Vero, comincia a manifestarsi, la vera ragione non teme di essere schiavizzata, ma si inoltra in ampiezze e profondità illimitate.  Ciò comincia già ad accadere là dove la creazione ci illumina la mente e il cuore con la sua indeducibile bellezza. Poi l’evidenza si rafforza in quella stanza segreta (i mistici e i bambini la chiamano “il castello del cuore”), dove Dio ci conosce da sempre e dove Egli ci ha già invitati.  Quando ciò accade, allora sì che la ricerca diventa davvero inesausta e inesauribile, secondo la splendida formula con cui S. Agostino conclude il suo trattato Sulla Trinità: «Dio lo si cerca per trovarlo con maggior dolcezza, lo si trova per cercarlo con maggiore ardore» (XV, 2, 2). 

L’unità finale di pensiero e fede

Commentando brevemente l’Enciclica Fides et Ratio — pubblicata da Giovanni Paolo II nel 1998 — l’allora Card. Ratzinger scriveva: 

«La fede, così ci dice il Papa, non vuole far tacere la ragione ma la vuole liberare dal velo della cateratta che, di fronte alle grandi domande dell’umanità, è steso ampiamente su di essa. Ancora una volta si vede che la fede difende l’uomo nel suo essere uomo. Josef Pieper ha espresso una volta il pensiero che “nell’epoca finale della storia, sotto la signoria della sofistica e di una corrotta pseudofilosofia, la vera filosofia si potrà ricongiungere nella primordiale unità con la teologia”, e che così, alla fine della storia “la radice di ogni cosa e il significato ultimo dell’esistenza che vuol dire: l’oggetto specifico del filosofare sarà guardato e considerato solo da quelli che credono”».

(Le quattordici encicliche del Santo Padre Giovanni Paolo II, Pontificia Università Lateranense, 9 maggio 2003)

Queste parole indicano a noi cristiani un compito “ultimo” che non è più, soltanto, quello di conciliare tra loro fede e ragionele due ali con le quali lo spirito umano si innalza verso la contemplazione della verità», come scriveva Giovanni Paolo II). Non è nemmeno quello di fare un bilancio della loro secolare vicenda (influssi reciproci e felici armonie, drammatiche separazioni o dannose contaminazioni). Del resto, papa Wojtyła l’ha già ampiamente delineato. Sarebbe sbagliato pensare che oggi il discorso cristiano sulla fede viva nell’affanno di rendersi accettabile alla ragione.

Il compito dei credenti

Troppi credenti credono che il loro compito più urgente sia quello di farsi ri-accettare nei salotti televisivi o nelle “scuole” dove imperano intellettuali positivisti (convinti che “solo le scienze positive offrono conoscenze vere”), o storicisti (convinti che “solo le forme di conoscenze adatte ad un certo periodo storico o a un certo compito storico sono valide”) o nichilisti (convinti che “non esiste alcuna verità oggettiva che meriti un impegno definitivo”).

Il compito dei credenti oggi non è tanto quello di accettare le sfide che la ragione lancia alla fede (è talmente estenuata la povera ragione!) quanto quello di accettare il grido di aiuto che essa lancia alla fede.  L’uso della ragione — anche da parte di coloro che pretendono esaltarla e imporla come unico valore — è sempre più meschino e asfittico, al punto che molte evidenze razionali sono rifiutate dagli stessi razionalisti e consegnate alla fede, come se appartenessero al suo esclusivo dominio.

Porsi «le domande di fondo che caratterizzano il percorso dell’esistenza umana: chi sono? da dove vengo e dove vado? perché la presenza del male? cosa ci sarà dopo questa vita?» e tenerle instancabilmente in evidenza, è un compito della ragione umana (cfr. Giovanni Paolo II, Fides et ratio, 14 settembre 1998, n. 1). L’umanizzazione della scienza e della tecnica è una questione della ragione umana. Le questioni attinenti alla dignità della persona e alla difesa della vita (dall’inizio al compimento) appartengono all’ambito della ragione umana. Le questioni attinenti all’ecologia della sessualità umana appartengono alla ragione.

Ma non appena tali questioni esigono una qualche assunzione di responsabilità, appena richiedono serietà di lavoro e sacrificio di adesione alla realtà, ecco che molti preferiscono rinviarle in blocco ai credenti: che se ne curino coloro che hanno abbastanza fede per farlo. È un esito paradossale! Il credente si trova a dover rispondere non solo della sua fede, ma anche della ragione di chi non ha più la forza di guardare in faccia la realtà. E forse questo ultimo affidamento della realtà alla fede è l’ultimo paradossale omaggio che i non credenti fanno alla fede. 

L’eresia futura: ragionevoli e mistici

I paradossi allora si moltiplicano, come bene intuì G. K. Chesterton nella straordinaria conclusione del suo Eretici

«La grande marcia della distruzione intellettuale proseguirà. Tutto sarà negato. Tutto diventerà un credo. Negare le pietre della strada diventerà una posizione ragionevole; riaffermarle diventerà un dogma religioso. Sarà una tesi razionale quella che ci vuole tutti immersi in un sogno; sarà una forma assennata di misticismo asserire che siamo tutti svegli. Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate. Noi ci ritroveremo a difendere non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile: questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Combatteremo per i prodigi visibili come se fossero invisibili. Guarderemo l’erba e i cieli impossibili con uno strano coraggio. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto».

(Eretici, Lindau, 242-243)

Man mano che l’uso autentico della ragione diventerà un credo, le posizioni irrazionali cercheranno di affermarsi come ragionevoli, ma, per farlo, dovranno accusare prima la ragione d’essere diventata dogmatica e mistica. Accadrà, cioè, che i cosiddetti cultori della ragione rinunceranno a ciò che è sommamente ragionevole considerandolo buono solo per i credenti, e i credenti dovranno accogliere e salvare nella loro arca anche alcune ricchezze della ragione. Così le persone veramente ragionevoli finiranno per essere considerate mistiche e quelle mistiche mostreranno d’essere sommamente ragionevoli. E forse quest’ultima convergenza — per quanto eccessiva — sarà la fantasiosa risposta con cui Dio salverà ancora una volta questo nostro mondo che vorrebbe a tutti i costi perdersi.

 

© Dialoghi Carmelitani, ANNO 24, NUMERO 3, Ottobre 2023