Intervista al Prof. Massimiliano Panarari (a cura di Luca Sighel)
Negli scorsi mesi è stato pubblicato il saggio Uno non vale uno (Marsilio editore) del prof. Massimiliano Panarari, che affronta il tema del diffondersi del neopopulismo e dell’utopia di una società orizzontale, apparentemente senza gerarchie. Il tema è di grandissima attualità non solo perché fornisce una chiave di lettura dei tempi che stiamo vivendo e della situazione politica italiana, ma anche perché svela, attraverso l’analisi delle parole più usate ed abusate del linguaggio e del dibattito politico, la presenza nel nostro immaginario di veri e propri miti (Popolo, Autenticità, Tecnologia, Disintermediazione, Democrazia diretta), indagandone con rigore sia le radici storiche che i risvolti più quotidiani del sentire e delle opinioni socialmente più diffuse.

Prof. Panarari, come spiega nel suo testo, il populismo, a seconda dei tempi e delle aree geografiche, ha assunto aspetti e configurazioni diverse, ma quali sono le caratteristiche e cosa si intende oggi per populismo?
Oggi siamo di fronte ad un neopopulismo, anzi ad una pluralità di neopopulismi. Accanto ad alcune caratteristiche strutturali (la dimensione neoplebiscitaria, la centralità del rapporto tra il capo e il suo popolo, l’utilizzo di strumenti retorici), riverniciate in chiave postmoderna, una funzione determinante viene assunta dalla tecnologia e, in particolare, nella reinvenzione della comunicazione che, attraverso la rete ed i social, realizza una sorta di fusione “mistica” tra il capo e i suoi seguaci. L’elettore può interagire virtualmente con il capo attraverso i social network, che orizzontalizzano il rapporto e destrutturano la distanza: si tratta di una sorta di appaiamento, si costruisce la simbolica promessa di una fusione tra il capo populista ed i suoi, che divengono letteralmente dei followers. Questo segnala come un aspetto rilevante e preoccupante del neopopulismo sia la reattività. Ed in effetti, nella storia, il populismo è stato spesso una reazione ad una serie di problemi che hanno caratterizzato l’evoluzione della democrazia liberal‒rappresentativa, una reazione rispetto all’avanzamento della tecnologia con le conseguenti riconfigurazioni economiche e i drammi sociali. Oggi il neopopulismo è una forma di reazione postmoderna nel senso che utilizza le tecnologie, che sono il portato della modernità, ma ne rifiuta alcuni degli elementi strutturali, le dimensioni culturali, l’idea di una emancipazione e di una possibilità di progresso, perché reagisce ad una crisi delle aspettative, ad una delusione marcata, alla sensazione che una parte della cittadinanza sia stata defraudata di un diritto alla felicità dalla ricerca di una crescita economica illimitata e di un continuo miglioramento delle condizioni di vita. Questa percezione si salda con il ritorno di una serie di elementi che la modernità ha allontanato: l’idea della gerarchia, l’idea della tradizione, il rifiuto sostanziale della modernità.
Cambia quindi il rapporto tra elettori e vertice?
Il grande paradosso è l’idea di una orizzontalizzazione, in cui lo slogan uno vale uno si accompagna però ad una fortissima ricerca di gerarchia. Il capo populista è una riaffermazione dell’antico regime, un’idea di una società fortemente ordinata e gerarchica, che però nega nella comunicazione l’idea che ci siano delle gerarchie e la costruzione di relazioni non paritarie che, in realtà, affiorano costantemente nella retorica populista, soprattutto verso i nemici, coloro che non fanno parte della comunità, i diversi. Il populismo è fortemente a disagio rispetto all’idea di democrazia liberale e di pluralismo, è profondamente critico dell’idea del compromesso che, da un punto di vista narrativo, criminalizza come “inciucio”, compromissione, ma il compromesso è la mediazione, fondamento su cui si edifica la democrazia rappresentativa. Il rifiuto del pluralismo è legittimato ideologicamente dall’idea della democrazia come principio maggioritarista. Mentre nella democrazia liberal‒rappresentativa tutti i soggetti che partecipano alla vita pubblica e civile hanno diritto ad una rappresentanza, per il fatto che sono portatori di idee diverse, e la tenuta del corpo sociale è garantita dalle istituzioni e dal compromesso‒mediazione, per il populismo, al contrario, l’atto elettorale risolve il principio democratico, per cui chi vince diventa la nazione, il popolo, il corpo collettivo e nessuno può e deve intralciare il suo operato.
Questo fenomeno istituisce quella che lei definisce una “neolingua” e una vera “politica linguistica”: come e perché si sviluppa?
Le operazioni di ridenominazione dei concetti e delle categorie della politica e del vivere collettivo iniziano con il primo grande leader della politica moderna, che è Ronald Reagan, con un processo di svuotamento e di ri‒riempimento semantico del lessico politico. Questo è collegato ad una visione ideologica: costruire una neolingua per ottenere consenso e depotenziare le armi degli avversari, serve — e questa è la novità — a creare un nuovo clima di opinione, cercando di ridefinire i modi di pensare. L’operazione si realizza con la sostituzione di termini, un sovraccarico emotivo ed emozionale, che viene riversato sulla vita pubblica (ad esempio il tema dei migranti, descritto sempre in termini emergenziali e di problematicità), e la riduzione monodimensionale di concetti complessi: ad esempio la finanza è sempre cattiva, perché ritenuta espressione di un’élite che vuole opprimere l’uomo comune, il cittadino perbene ed innocente. Riconfigurare il quadro semantico della politica, che oggi è quasi tutta comunicazione, in cui lo storytelling è divenuto determinante, è necessario per poter esercitare una forma di orientamento simbolico e di manipolazione più forte e significativa.
Anche nel nostro Paese?
C’è una specificità italiana: la trasformazione del quadro politico italiano avviene in occasione della crisi sistemica che fu Tangentopoli, quando una serie di nodi vennero al pettine e, in un quadro internazionale di forte cambiamento, un sistema consociativo di connivenza, che aveva garantito la vita dei partiti, entrò in crisi. Una delle critiche mosse ai partiti era di esprimersi in politichese, in una lingua non comprensibile, e l’ascesa di un partito populista e territoriale come la Lega Nord introduce un linguaggio basico, pieno di espressioni che sottolineano l’opposizione tra un’élite colpevole e un popolo che ha subito. E questa idea della colpevolezza dell’establishment e l’innocenza perenne dei cittadini è una colonna portante del populismo, a cui si aggiunge la dimensione del giustizialismo, che ritiene il linguaggio complesso una modalità per nascondere la corruzione. Diviene necessario far saltare tutti i filtri. A partire dalla prima metà degli anni ‘90, sembra di essere entrati in una fase di transizione permanente, nella quale ancora viviamo: il linguaggio deve essere al livello del cittadino, in un contesto di regressione culturale sempre più rilevante, di analfabetismo funzionale in aumento e di una richiesta crescente di semplificazione. Si ritiene che tutto il sapere sia in rete e non sia più necessaria la figura del mediatore culturale di professione. È la grande crisi e battaglia contro le competenze e i saperi specialistici, per cui non c’è bisogno neppure di maglie interpretative di questa immensa massa di sapere: la semplificazione del linguaggio e anche la sua volgarizzazione diventano un sinonimo di autenticità e viene fortemente rivendicato da una parte del corpo elettorale.
Tra i miti di oggi l’idea di “popolo” è forse la più manipolata, ma che popolo è quello di cui sentiamo parlare?
L’idea monistica del popolo come unità è una grande finzione, che ha un’origine precisa, come tantissimi studi ci raccontano, nella Rivoluzione francese, perché la borghesia, la nuova classe sociale egemone, più acculturata e politicamente strutturata, ha bisogno di costruire una legittimazione al proprio potere, in alternativa a quelli che erano stati i pilastri legittimanti della società europea dell’Antico Regime: il diritto di sangue, la trasmissione dinastica e soprattutto la legittimazione divina. Il popolo diventa il nuovo principio mondano di legittimazione, ma, perché questo avvenga, occorre costruire l’idea di una uguaglianza tra tutti i soggetti che hanno fatto la rivoluzione. Si tratta di un’uguaglianza giuridica, di fronte alla legge, ma l’idea del popolo, che serve a legittimare quel cambio di regime, che scardina e cambia i connotati della società occidentale, rimane ad un livello astratto. Da questa origine, nelle trasformazioni politiche si è cercato di dare sempre maggior sostanza a questa idea di uguaglianza. Il populismo, nelle sue differenti manifestazioni e con accenti diversi, proclama l’idea di una democrazia sostanziale, ma, in questo caso, l’uguaglianza si traduce nel potere di uno e di alcuni che lo circondano, che viene spacciata come uguaglianza sostanziale attraverso l’atto plebiscitario, la costruzione di una comunità escludente altri soggetti, talvolta un principio nativista, che vale solo per coloro che hanno determinate caratteristiche biologiche o di nascita, entro un dato territorio. L’idea dell’uguaglianza assoluta proclamata dai populismi è strutturalmente escludente, in questo si oppone all’idea universalistica della stessa rivoluzione che, pur in astratto, immaginava un popolo aperto.
Come si concilia con questa prospettiva la pretesa di autenticità e di verità da parte dei leaders dello schieramento populista?
Dato che un’uguaglianza assoluta non è realizzabile, anche se va perseguita in termini di anelito, di spinta verso il miglioramento delle condizioni sociali di tutti e di pari opportunità di partenza, nel momento in cui viene proclamata come principio e si afferma che la sovranità risiede totalmente nel popolo, si escludono tutta una serie di soggetti, perché il popolo in quanto tale non è una comunità universale, ma è chiusa e ristretta. In realtà il neopopulismo rifiuta la modernità o meglio, come fanno i populismi di un secolo fa, si inventa un modernismo reazionario, prende della modernità la dimensione pratica, alcuni processi e la tecnica, ma ne rifiuta il principio essenziale, il principio universalistico dell’emancipazione collettiva e della società aperta. Per trovare legittimazione, si fa appello allora alla natura nelle sue varie forme, quindi all’autenticità, rigettando il mondo moderno come luogo di corruzione progressiva e di contaminazione, che distrugge quell’unità del popolo come unità linguistica, culturale, etnica, anche come luogo di difesa dal mondo esterno, ad esempio contro i processi di globalizzazione. E il principio della naturalità lo ritroviamo anche come richiamo impressionante alla tradizione, come se la tradizione non fosse un processo di negoziazione culturale continua. Premesso che i populismi hanno geometrie variabili nel disporsi in maniera diversa rispetto all’asse destra‒sinistra, è molto interessante osservare come, nel neopopulismo di destra, il cristianesimo diventi la tradizione, venga ipostatizzato e trasformato in un giacimento immutabile, richiamandosi al quale si cerca legittimazione, come se il cattolicesimo e la Chiesa non fossero la dimostrazione più evidente di un profondo, complesso, travagliato e, certamente, sofferto confronto con la modernità, testimonianza dello sforzo di stare nel proprio tempo al mutare dei tempi. In questo caso la tradizione, nell’uso neopopulista, diventa convenzionalismo e confessionalismo cristiano, una sorta di museificazione reazionaria. Nel neopupulismo di sinistra si trova invece il paradosso di un orientamento “luddista”: viene assunta la dimensione pratica e tecnologica della modernità (“il partito digitale” della piattaforma Rousseau), ma di fatto si aspira ad un ritorno alla naturalità preindustriale come rifiuto della modernità con le sue evoluzioni ed infrastrutture. In un grande calderone ideologico, in cui è presente tutto un filone new age, alcune forme di neopaganesimo, una strutturale idea anti‒illuministica, vive il sogno vagheggiato di un’epoca prima dell’industria, che si salda, paradossalmente, con la retorica della rete e dell’economia digitale che, però, aggira il problema essenziale e più grave: il tema dell’occupazione e l’idea della dignità del lavoro.
In che senso la politica, nella ricerca del consenso, ha assunto la struttura del reality televisivo, come lei sottolinea nel capitolo dedicato alla tecnologia?
L’utilizzo delle tecnologie è neotelevisivo: ogni tecnica propagandistica digitale, compreso l’uso del web in chiave politica, rappresenta uno slittamento progressivo e un occultamento progressivo verso la logica neotelevisiva commerciale, nell’accezione data da G. Bettettini e da U. Eco: una TV profondamente gerarchica, votata all’intrattenimento. Quindi la formidabile capacità della neo‒TV di veicolare merci e prodotti è stata trasferita alla politica ed oggi la politica crea consenso attraverso l’intrattenimento. Inoltre, rispetto alla RAI pedagogica, che aveva, pur con molti limiti, una vocazione culturale e di servizio pubblico, si afferma l’idea che nessuno deve più insegnare niente. La neotelevisione rende il pubblico formalmente un pezzo della narrazione, così produce rispecchiamento e grande gratificazione del pubblico stesso. Molte delle tecniche del reality (il tele/web‒voto, il casting, le nomination, lo streaming) sono trasferite alla politica, in modo più evidente in quella vera forma postmoderna della politica italiana che è il Movimento 5 stelle, che è un calco mediale, non una forma‒partito, ma un format‒partito.
Un capitolo è dedicato alla disintermediazione, termine di derivazione economica, che identifica il mito della democrazia diretta, senza mediazioni. Anche in vista delle prossime consultazioni elettorali, è possibile la democrazia diretta?
I nostri padri costituenti si erano posti il problema di affiancare al sistema istituzionale della democrazia liberal‒rappresentativa degli istituti di democrazia diretta, che consentissero ai cittadini elettori che si riconoscevano nei corpi intermedi, i partiti, di partecipare più direttamente alla vita pubblica e democratica. Oggi l’enorme problema è il collasso dei corpi intermedi, perché la democrazia rappresentativa ha bisogno di articolazioni della società e di forme rinnovate di partiti, ha bisogno della Chiesa e di luoghi di produzione culturale, di agenzie educative e di socializzazione. L’idea di una presunta democrazia diretta, che è, secondo me, l’ideologia del direttismo democratico, si proietta su un contesto di forte polarizzazione della popolazione, su un contesto che è un insieme di monadi, anche all’interno della rete. La democrazia diretta richiede invece persone ed individui consapevoli, che siano in grado di svolgere un ruolo attivo e di compiere una scelta razionale. La democrazia diretta rischia di risolversi non in un referendum, ma nel televoto, non in una proposta popolare di legge, ma in decisioni in cui certi leaders e apparati comunicativi diventano determinanti nell’orientare il voto. Ciò che colpisce è che accanto alla rivendicata attribuzione di strumenti di democratizzazione e di disintermediazione, non ci sia mai il tema della crescita della consapevolezza dei cittadini‒elettori.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 20, NUMERO 1, Aprile 2019

Massimiliano Panarari è sociologo, saggista e consulente di comunicazione politica e pubblica. Insegna all’Università LUISS Guido Carli di Roma, alla LUISS School of Government e all’Università Luigi Bocconi di Milano. Editorialista dei quotidiani La Stampa, Il Mattino di Padova, Il Piccolo e il Giornale di Brescia, collabora con L’Espresso e Il Venerdì di Repubblica. È autore dei volumi L’egemonia sottoculturale (2010) e Poteri ed informazione (2017). Ha curato l’ultima edizione della Storia del giornalismo italiano di Paolo Murialdi (2014), Alfabeto Grillo. Dizionario critico ragionato del Movimento 5 Stelle (con Marco Laudonio 2014) e Elogio delle minoranze. Le occasioni mancate dell’Italia (con Franco Motta 2012).