Alcune note sulla spiritualità di Santa Teresa di Gesù in occasione dei 50 anni del suo Dottorato (27 settembre 1970 – 27 settembre 2020)
(di P. F. Silvestri ocd)
Quando Papa Paolo VI – il 27 settembre di 50 anni fa – decise di conferire il titolo di Dottore della Chiesa a Teresa di Gesù, sapeva che il suo gesto sarebbe passato alla storia: si trattava infatti della prima donna in assoluto, nella vicenda della Chiesa, a ricevere questo titolo. Un titolo che risponde al criterio della santità della vita, ma anche a quelli del valore, dell’ortodossia e della diffusione degli scritti (“l’eminenza della dottrina”), come pure della fecondità nel tempo dell’insegnamento spirituale. Per questo, nell’omelia di quel giorno, il Papa si espresse così: “I segreti di cui ci parla la dottrina di Teresa sono i segreti dell’orazione. La sua dottrina è qui. Ella ha avuto il privilegio e il merito di conoscerli, questi segreti, per via di esperienza, vissuta nella santità d’una vita consacrata alla contemplazione e simultaneamente impegnata nell’azione, e di un’esperienza insieme patita e goduta nell’effusione di straordinari carismi spirituali”. In occasione di questo anniversario così caro al Carmelo, e in senso più ampio così caro alla Chiesa, proponiamo allora queste note di sintesi, dedicate in particolare al rapporto tra solitudine, orazione e carità, che Teresa ha vissuto e poi ha illustrato con la sua dottrina.

Per capire quale valore abbia l’orazione per Santa Teresa d’Avila è necessario conoscere la “storia” del suo cuore. Storia magnifica, ma anche complessa e dolorosa. Storia appassionata. Quando il direttore spirituale le chiese di illustrare il suo modo di pregare, non fu quindi per caso che la Santa scelse di raccontare la sua vita. O, più precisamente, di inserire note più dettagliate sulla preghiera all’interno della narrazione della sua esistenza, intesa già come racconto del suo rapporto con Dio. Così, nel suo primo e fondamentale scritto, noto appunto come Vita o Autobiografia, Teresa svilupperà, quasi spontaneamente, quel principio fondamentale che contraddistingue la sua intuizione carismatica: la preghiera racconta la vita stessa, perché il senso più profondo della vita è di essere una continua preghiera. In questo orizzonte, infatti, la vita appare come un continuo attuarsi della relazione con Dio che, per Sua misericordia, accade anche quando noi non ne abbiamo ancora maturato il desiderio, anche là dove non ne abbiamo ancora piena avvertenza.
L’orazione: il tempo del “cuore a cuore”
All’interno di questa concezione “plenaria” della relazione con Dio, Teresa si esprimerà comunque con chiarezza su cosa debba intendersi per preghiera in senso stretto. I momenti più custoditi della preghiera, infatti, non solo non devono venir meno, ma diventano più decisivi, in proporzione alla loro intensità e alla loro frequenza. Teresa non offrirà definizioni in senso tecnico per descrivere la preghiera di cui fa esperienza, che chiamerà orazione mentale. Quello a cui lei pensa, e che in più di un passaggio descrive, è più un vero e proprio “cuore a cuore” tra la creatura e il Creatore. Ma proprio a motivo di questa sua natura teologico-affettiva, legherà all’orazione una condizione fondamentale, che noi oggi rischiamo di sottovalutare, oppure di non capire nel senso da lei inteso: la solitudine. Ecco infatti come si esprime la Santa di Avila per descrivere l’intimità di un momento che, in sé, resta non descrivibile: “Per me l’orazione mentale non è altro se non un rapporto d’amicizia (tratar de amistad), un trovarsi frequentemente da soli a soli (tratando a solas) con chi sappiamo che ci ama” (Vita 8,5). È nella solitudine, infatti, che si trovano gli “amanti”. È nella solitudine che il loro colloquio può accadere con il tratto amichevole della confidenza. Ed è nella solitudine che i due, reciprocamente, si conoscono. Nella solitudine, in particolare, l’anima può trattare familiarmente con Qualcuno da cui già sa di essere amata, anche dopo numerose cadute, anche dopo che tutto le consiglierebbe di non potersi più permettere quella intimità: e questo perché il rapporto avviene già dentro un Amore che la precede, che la conosce, che la chiama… Altrove – con linguaggio più marcatamente sponsale – Teresa dirà per questo che fare orazione, per l’anima, non è altro che “unirsi da sola a solo (entender el alma a solas) con il suo Creatore” (Esclamazioni 2,1).
Per essere interi nell’amore
D’altra parte, per capire perché l’orazione teresiana finisca per attribuire un tale rilievo alla solitudine, bisogna tener presente quale sia stata la “battaglia” spirituale ed umana affrontata da Teresa. Per più di vent’anni, infatti, la Santa lottò con sé stessa e lo fece esattamente a motivo di un “problema d’amore”. Era monaca, aveva votato a Dio la sua vita, era già molto stimata dalle consorelle e dai secolari che la visitavano: ma non era intera. Sapeva di non esserlo davanti a Dio. Perché non si percepiva intera nell’amore restituito, a fronte delle molte grazie ricevute. Questa consapevolezza, in particolare in alcuni periodi, raggiunse tratti realmente drammatici, con l’intensità di una ferita per la sua anima. E durò così a lungo, nell’incertezza lacerante sul da farsi, da sciogliersi infine soltanto con l’invocazione di una grazia definitiva, implorata tra le lacrime. Quella di scegliere lo Sposo divino come unico destinatario dei suoi affetti e del suo tempo.
Teresa capì subito, però, che la difesa di un tale impegno si sarebbe potuta attuare – oltre che con la determinazione personale – soltanto con una diversa e oggettiva affezione alla clausura. Lo stesso cuore che un tempo era stato diviso e disperso, ora chiedeva a sé stesso, con esigenza e unità, il raccoglimento esclusivo di chi intende dedicarsi a un unico amore. Come faceva a suo tempo il Maestro (cfr. Cammino di perfezione 24,4), anche in monastero la solitudine doveva essere cercata: “Ciò che noi possiamo fare è cercare la solitudine. Piaccia a Dio che ciò basti – ripeto – per comprendere con chi stiamo e quali siano le risposte del Signore alle nostre domande. Credete forse che egli taccia? Anche se non lo udiamo, parla chiaramente al cuore, quando è il cuore a pregarlo” (ivi).
La mia solitudine è per Te
Da quanto detto sin qui, è già possibile intuire come la solitudine di cui parla Teresa si distingua da qualunque altra forma di isolamento. Il suo riferimento non è ad un’attitudine personale; non è un invito alla riservatezza, né un rifugio per pulsioni egocentriche, variamente segnate dal rifiuto dell’altro. La soledad teresiana non è infatti primariamente una libertà da qualcosa o qualcuno, ma voluta per… qualcuno e per qualcosa. È per una relazione. Anzi, più precisamente, è per la relazione con l’Amore, che merita ogni primo affetto, ogni prima attenzione. L’interlocutore in questo rapporto è infatti lo Sposo dell’anima, l’unico che possa chiedere una relazione esclusiva, segnata da una gelosia divina. Oppure è il Padre, che pure abita i Cieli: “L’anima non ha bisogno di ali per andare a cercarlo, ma solo di ritirarsi in solitudine, sentirlo dentro di sé e non meravigliarsi di ricevere un tale Ospite” (Cammino di perfezione 28,2). Oppure infine è lo Spirito, che costantemente chiama l’anima a raccogliersi nell’amore, anche sottraendola ad altre relazioni: “A volte mi procura grande sofferenza dover trattare con la gente e la mia afflizione è tale da non sapermi trattenere dal versare molte lacrime, perché il mio vivo desiderio è quello di stare sola. Anche quando non prego, né leggo, la solitudine mi è di conforto” (Relazioni 1,4).
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La vera “sostanza” dell’orazione
Ma se è vero che la solitudine invocata da Teresa è una relazione – perché è a questo che tende l’orazione – resta da precisare in cosa consista l’essenziale di questo rapporto. Qual è l’essenza dell’orazione? La risposta si trova espressa con particolare efficacia all’inizio del racconto delle Fondazioni, in un capitolo ricco di dottrina spirituale: “Anzitutto voglio dire, nei limiti delle mie capacità, in che consista la sostanza della perfetta orazione. Mi sono, in verità, incontrata con alcune persone che credono che la questione consista tutta nell’esercizio dell’intelletto. […] Ma vorrei far capire che l’anima non è il pensiero, e che la volontà non è diretta da esso, il che sarebbe una vera disdetta. Ne consegue che il profitto dell’anima non consiste nel molto pensare, ma nel molto amare” (Fondazioni 5,2).
Il medesimo concetto si ritrova nello scritto della maturità spirituale di Teresa: alle Quarte Mansioni del Castello, là dove il raccoglimento umano inizia ad essere assunto dal raccoglimento soprannaturale, Teresa ribadisce che “il nodo della questione non sta nel pensare molto, ma nell’amare molto” (4 Mansioni 1,7). Un amore che, quindi, non è l’emozione del momento. Non è il tanto ricercato “sentire” della preghiera, che troppo spesso si limita a un piacere spirituale ego-centrato, che non è appunto relazione. Non è l’ostinazione di restare nelle proprie convinzioni spirituali, confondendole con la fedeltà a Dio. Con molto realismo Teresa afferma: “Forse non sappiamo che cosa sia amare, e non me ne meraviglierei molto, perché (l’amore) non consiste nel maggior piacere spirituale, ma nella maggiore determinazione di cercar di accontentare Dio in tutto, di fare ogni sforzo possibile per non offenderlo, di pregarlo per il trionfo costante dell’onore e della gloria di suo Figlio e per l’incremento della Chiesa cattolica. Questi sono i segni dell’amore” (ivi). La vera “sostanza” dell’orazione, dunque, quella che può essere chiamata la sua essenza, è amore. Amore che sia dono, verificabile da segni concreti, che per altro Teresa nomina: l’Altro non va offeso, l’Altro va sempre accontentato, l’Altro va amato. E con questa stessa intensità andrà servita e onorata la Sua Chiesa.
Sole con il Solo
C’è dunque un legame assai stretto tra la solitudine, l’orazione e le proprie scelte fondamentali. E questo legame ha come sua sostanza e suo fine l’amore. Questa esperienza personale è tradotta da Teresa in una pedagogia spirituale corrispondente. La cura della solitudine, nei monasteri della Riforma, sarà infatti richiesta per garantire questo principio di natura amicale e sponsale. E in modo tale che il principio personale possa diventare comunitario: “Quelle che cercano la solitudine (a solas) per godere del loro sposo Cristo Gesù, qui hanno la possibilità di stare sempre con Lui. Questo, infatti, è ciò a cui devono sempre aspirare in questa casa: stare sole con Lui solo (solas con El solo)” (Vita 36,29). Se il desiderio delle monache fosse invece quello di uscire spesso e di trattare frequentemente di cose del mondo, allora i motivi potrebbero essere solo due: “O che non abbiano abbracciato la vita religiosa soltanto per Lui; o che – dopo averla abbracciata – non abbiano capito quale straordinaria grazia Dio abbia concesso loro, scegliendole per sé” (Fondazioni 1,6. 31,46; cfr. Cammino di perfezione 4,9).
Lasciare la solitudine per amare
Tuttavia, la coerenza dell’intuizione carismatica di Teresa emerge con più evidenza proprio là dove sembrano ammesse delle eccezioni a questa norma fondamentale. Infatti, in virtù di un paradosso solo apparente, in alcune circostanze potrà accadere che l’amore da esprimere nell’orazione sia onorato di più dovendo lasciare quella stessa solitudine che, normalmente, la custodisce. In alcune necessità, ad esempio, come la malattia o altre infermità, potrà risultare inevitabile che il tempo della solitudine si riduca. Ma questo non significherà automaticamente che sia ridotto anche il tempo dell’orazione: se l’orazione è amore, allora l’anima che cerca il Signore troverà il modo di mostrarsi “amante” in ogni circostanza, e in particolare con l’offerta della propria sofferenza, sia interiore che fisica: “[L’orazione è] una pratica che non richiede forze fisiche, ma solo amore e abitudine. E il Signore ci dà sempre l’occasione favorevole per compierla, se lo vogliamo. Dico «sempre» perché, sebbene per determinate circostanze, o anche infermità, talvolta ci venga impedito di stare a lungo in solitudine, non mancano di esserci altri momenti in cui la salute ci permette di attendervi; senza dire che proprio in quella stessa malattia, o in speciali avverse circostanze, consiste la vera orazione, se si tratta di un’anima amante: cioè nell’offerta a Dio di quella sofferenza, pensando per chi si soffre, conformandosi alla sua volontà e con mille altre considerazioni del caso. In tal modo, l’anima fa esercizio d’amore, perché non bisogna praticarla necessariamente solo quando si disponga di tempo e di solitudine, né pensare che diversamente non possa esservi orazione. Con un po’ di attenzione, se ne può ricavare molto bene anche se il Signore, con sofferenze di vario genere, ci toglie il tempo di attendere all’orazione (Vita 7,12).
Allo stesso modo è possibile che ci si trovi a dover lasciare la solitudine per una richiesta dell’obbedienza o della carità. Anche in questo caso, la coerenza di tali richieste dipenderà dall’avere un fine comune con l’orazione: l’obbedienza esprime amore a Dio, amore guidato dalla fede, così come la carità esprime amore al prossimo, amore dato nel nome di Dio. L’amore, d’altra parte, non potrebbe essere mostrato solo a parole, ma ha bisogno di maturare attraverso scelte di pazienza e umiltà: “Qui, figlie mie, si dimostrerà l’amore, in mezzo alle occasioni, e non nei ritiri della solitudine: credetemi! Anche se si commettono più errori e si subiscono inoltre alcune piccole perdite, il profitto che se ne trae è senza confronto più grande […] Perché riusciamo a capire chi siamo, e fin dove arrivi la nostra virtù. Infatti una persona sempre ritirata in solitudine, per santa che le sembri di essere, non sa se possieda pazienza e umiltà” (Fondazioni 5,15). Così sarà ribadito anche nel Castello, dove Teresa non si farà scrupoli ad affermare: “Mi gioverebbe poco, infatti, starmene profondamente raccolta in solitudine, intenta ad operazioni interiori alla presenza di nostro Signore, proponendomi e promettendo di far meraviglie al suo servizio, se poi, uscendo da lì, quando si presenta l’occasione, faccio tutto il contrario” (7 Mansioni 4,7). L’uscita dalla solitudine, dunque, può essere addirittura una verifica dell’autenticità della propria orazione: la cui sostanza, come detto, sarà sempre il dono di sé fatto per amore.
Le opere come fine dell’orazione (e della solitudine)
Quando dunque Teresa arriva a voler dire il fine più autentico dell’orazione, non c’è da sorprendersi che questo non si compia soltanto nell’interiorità della persona. Si può infatti affermare, ora in modo più circostanziato, che l’orazione è in tutto relazione. È cioè apertura, ascolto, dialogo: una dimensione in cui l’alterità ha un ruolo costitutivo, attestata innanzi tutto dalla presenza di un Altro che abita in me. E per questa stessa ragione, l’amore che essa esprime non potrà mai restare confinato nel solo cuore di chi prega. Questo amore anzi, proprio perché nativamente educato al rapporto con l’Altro, è chiamato ad assumere come suo possibile destinatario ogni uomo, ogni cuore. L’orante comincia così a desiderare – con lo stesso desiderio di Dio – che ogni cuore sia raggiunto dalla stessa Grazia di cui egli sta beneficiando. E, mentre il nostro amore inciampa nella gelosia meschina di voler trattenere l’Amato solo per sé, questo amore no, non si muove secondo queste logiche, perché ha già il respiro di Dio: “Oh, potente amore di Dio, come son diversi i tuoi effetti da quelli dell’amore del mondo! Questo non vuole compagnia, sembrandogli che gli altri gli rubino il bene che possiede, mentre quello del mio Dio aumenta tanto più quanto più numerosi sono gli amanti; pertanto, se qualcosa sminuisce la sua gioia, è vedere che non tutti godono di un così gran bene (Esclamazioni 2,1).
Chi dunque ama davvero Dio, e davvero lo cerca nella solitudine dell’orazione, saprà mostrarlo anche con opere concrete ed umili di amore al prossimo. Anzi, si può essere certi che chi prega davvero non andrà da solo in Cielo: “Chi comincia a darsi all’orazione […] non entrerà mai solo in Cielo, ma portandosi dietro molta gente, come un buon capitano a cui Dio abbia affidato la sua compagnia” (Vita 11,4). Anche al vertice del suo capolavoro, cioè nelle Settime Mansioni del suo Castello interiore, il fine dell’orazione – che è anche il culmine dell’esperienza mistica (identificato da Teresa con la categoria sponsale di “matrimonio spirituale” tra Dio e l’anima), sarà definito così: “Questo è il fine dell’orazione, figlie mie; a questo serve il matrimonio spirituale, a far nascere sempre nuove opere e opere!” (7 Mansioni 4,6). E il criterio di verifica del proprio essere spirituali sarà un umile sguardo da rivolgere al Crocifisso: “Sapete in cosa consista essere davvero spirituali? Farsi schiavi di Dio, marcati dal suo ferro, che è quello della croce, avendogli dato la nostra libertà, sì che egli ci possa vendere quali schiavi di tutto il mondo, come lo fu lui…” (ivi 4,8).
Una conclusione per noi
Questa grande intuizione spirituale, che riguarda da vicino chi fa vita di clausura, mostra in realtà un valore universale. Per tutti, infatti, la vita assume la forma di una grande preghiera, cioè di un rapporto con Dio che in ogni caso si svolge, anche nella (nostra) non consapevolezza. Ma, ancora di più, per tutti è decisivo diventarne coscienti: per capire il dono autentico che la vita contiene, come pure per capirne il compito, che per Teresa significa essere “interi” nel proprio amore. Sia quello da restituire a Dio, sia quello offerto alle persone care. In questo senso, allora, la solitudine è un luogo di pace, “perché l’anima in essa può riposare con Colui che è tutto il suo Riposo” (Esclamazioni 2,1). Ma è anche un luogo di desiderio, rivolto all’unione definitiva, che riempie la vita di una profonda nostalgia d’amore: “Oh, mio diletto, Signore di tutto il creato e mio Dio! Fino a quando dovrò aspettare per vedervi faccia a faccia? […] Oh, che assoluta solitudine, che solitudine senza rimedio! Quando, dunque, Signore, quando? …Ma sia pur così, mio Dio, poiché voi lo volete… E io non voglio altro che amarvi” (ivi 6,1).
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 21, NUMERO 2, Ottobre 2020