(di P. Antonio Maria Sicari ocd)

 

«Quante volte devo perdonare?» chiedeva l’apostolo Pietro a Gesù, pensando che «fino a sette volte» fosse già un’offerta molto generosa. Dicono, infatti, gli esperti che «nella simbologia ebraica il numero 7 indicava la perfezione». Ma ecco che Gesù chiedeva al suo discepolo il proposito di perdonare «settanta volte sette», il che voleva dire: «una perfezione moltiplicata all’infinito». Certo Pietro avrà ricordato subito i torti già ricevuti, e l’eventualità di poterne ricevere ancora in numero così elevato bastava da sola a stordirlo. Ma il Figlio di Dio, con la Sua risposta, voleva già dirci che il tema del perdono ha delle profondità abissali: c’è il perdono che dobbiamo dare sempre a chi ci fa del male, c’è quello che dobbiamo chiedere sempre a coloro che abbiamo offeso, e c’è il perdono che dobbiamo saper dare a noi stessi (e che, a volte, è quello più difficile!). Poi c’è il perdono che dobbiamo chiedere a Dio stesso per le innumerevoli disobbedienze e le trasgressioni alla Sua Legge. E c’è soprattutto quell’infinito perdono che Gesù chiese per noi uomini mentre Lo crocifiggevamo, dicendo al Padre che «non sapevamo quel che facevamo!» (Lc 23,34).

 

La Chiesa, Madre del perdono

È evidente che la saggia amministrazione e distribuzione di tutto questo perdono (nei suoi innumerevoli intrecci) aveva bisogno di una Madre che ci aiutasse sempre a resistere alla più terribile tentazione diabolica con cui il demonio continua ad assediarci per convincerci che il perdono è impossibile, perché «il male si identifica sempre con colui che lo compie».

Questa Madre misericordiosa che interviene continuamente ad “assolverci” (cioè: a “scioglierci dal male”) è la stessa Chiesa alla quale Gesù ha affidato la celebrazione del perdono. È allora molto importante per noi capire quale sia l’elemento essenziale quando ci accostiamo a questo sacramento e ci vengono chieste alcune disposizioni per poterlo ricevere: dolore per aver peccato, sincero pentimento, accusa delle singole colpe, proposito di non più peccare e intenzione di riparare al male fatto, ecc.

Sono tutti aspetti importanti, ma dobbiamo viverli “cristianamente”, cioè in maniera da rispettare e assecondare l’espiazione fatta da Gesù e da Lui realizzata a nostro favore. In altre parole, il perdono è prima di tutti i nostri atti ed è stato messo gratuitamente a nostra disposizione da Gesù morente in Croce per noi. Tutti gli atti che noi dobbiamo compiere (nei limiti delle nostre possibilità) non sono necessari “per ottenere il perdono”, ma per offrire a Gesù il movimento umile e paziente della nostra libertà che dice di sì “al dono del perdono” di Dio.

Non dobbiamo conquistarci niente, non dobbiamo garantirci niente. I nostri atti che precedono l’assoluzione (e quasi la preparano) sono importanti solo perché Dio non vuole trattarci come burattini, ma come persone capaci di amare (cioè già perdonate!). Ci è, dunque, chiesto soltanto di aprire le mani (e la mente e il cuore) per ricevere il dono che Gesù ci offre dalla Croce, e per mostrarGli umilmente che siamo disponibili con gioia a un lavoro su noi stessi per assimilare il Suo amore. Da questa “disponibilità al lavoro” (con pazienza, senza delusioni e stanchezze) sia il confessore che il penitente possono verificare la “qualità sufficiente” sia del pentimento che del proposito. 

Ma il sacramento della penitenza deve restare il luogo dove la misericordia di Dio è sempre disponibile ad ospitarci: il luogo dove la memoria di Cristo viene mantenuta viva, struggente e attuale; il luogo dove il nostro desiderio di santità viene mantenuto acuto e umile; il luogo dove la moralità è costantemente insegnata, richiamata e stimolata.

Ad ogni cristiano bisogna dire instancabilmente: “il mistero della Redenzione riguarda proprio te, proprio il tuo bisogno di salvezza, proprio il tuo destino! Ed è nel sacramento della confessione che tu puoi prendere parte personalmente alle vicende della passione di Cristo: prima con la consapevolezza d’aver crocifisso il Signore della vita (l’accusa e il dolore dei peccati), poi con la riconoscenza, il ringraziamento e l’adorazione (nel perdono). Ed è qui che il sangue versato da Gesù sulla Croce scende direttamente sulla tua anima, e ti lasci afferrare dalla Sua gioiosa Resurrezione”.

Chiunque si lasci fedelmente collocare là dove il perdono di Dio viene sempre offerto (a costo di ritornare nel luogo del sacramento a lui riservato, ogni giorno ― come facevano alcuni Santi) capisce, prima o poi, che esso è «il sacramento della speranza»: il sacramento in cui ogni «povero peccatore» può restare certo ― quale che sia la sua situazione di debolezza e di malore ― che il Grande Amore vincerà su di lui, e guarirà le sue ferite, e concederà appunto “la vita eterna”.

 

 

La Chiesa domestica, per educarsi al perdono

Quel perdono, che la Chiesa vuole sempre donare sacramentalmente ad ogni cristiano, ha però bisogno di una educazione quotidiana, che può essere garantita solo dal sacramento del matrimonio, vissuto in tutta la sua dimensione familiare.

Quando si costituisce il patto familiare (anch’esso fondato su un sacramento) la moralità di tutti i contraenti dipenderà dalla accoglienza piena del dono di Dio: dipenderà da come si accolgono reciprocamente i due sposi, da come si accoglieranno reciprocamente genitori e figli, da come si accolgono reciprocamente i fratelli e gli altri componenti del nucleo domestico.

E l’accoglienza piena del dono, in famiglia, si chiama abitudine al per–dono, cioè “a quel di più di dono”, esigito dalla quotidiana esperienza che ognuno ha bisogno di più amore di quanto non se ne meriti.

Tra i familiari, insomma, la fedeltà amorevole (nei suoi vari aspetti) può sussistere solo in forza di un continuo perdono, cioè: se l’amore sempre più grande di Cristo e per Cristo ― del quale si è diventati Sacramento ― getta sul piatto della bilancia “un continuo di più”.

L’esperienza di molti Santi, per quanto riguarda il contesto familiare, dimostra che ogni cristiano ― nonostante la diversità delle vocazioni e degli stati di vita ― deve saper abitare anche una specie di “cella monastica” o “cella interiore in cui ritirarsi, per gustare la solitudine del proprio cuore–a–cuore con Gesù e “per parlare a Gesù dell’altro familiare”, soprattutto quando si esperimenta una fatica comunionale.

Quando un familiare (che fa parte della mia vita, e delle mie “abitudini” e perfino del mio “abitare”) mi delude e mi affatica devo entrare in dialogo con Cristo, per imparare ancora una volta che l’altro, «nonostante la sua mutevolezza, merita la mia fedeltà, nonostante il suo peccato è degno di perdono, nonostante la sua fragilità è degno di un legame indissolubile, nonostante la sua povertà diviene degno di devozione e di infinito rispetto. In Cristo, l’altro essere non può mai essere consumato, né totalmente posseduto: dev’essere lasciato in una certa degna solitudine, che impedisce il mito pagano della fusione. L’altro viene donato attraverso una rivelazione e attraverso una continua redenzione. Il principio torna ad essere possibile». (A.M. Sicari, Breve catechesi sul matrimonio, Jaca Book, 1990, p. 33).

Breve meditazione sul perdono familiare

Santità è toccare l’infinito con lo stesso unico gesto con cui si toccano le cose e le persone della vita… come avveniva al tempo dell’Incarnazione di Cristo. E questo lo si vede soprattutto quando “il tocco di cui parliamo produce sofferenza. Ci sono famiglie in cui le cose funzionano bene quando il rapporto si rivela soddisfacente, bene bilanciato ed equilibrato. Ma appena uno è, per l’altro, causa di sofferenza, appena il rapporto impone qualche pena, allora l’unione va in crisi e i due si sottraggono l’uno all’altro, a volte temporaneamente, a volte definitivamente.

La più grave incomprensione nella vita di coppia e di famiglia, dal punto di vista cristiano, sta in questo: che i vari membri si sono abituati a capire l’amore come una forza che li attrae l’uno verso l’altro e li gratifica, ma non come la forza che li allena a soffrire l’uno per l’altro, a portare l’uno i pesi dell’altro, a farsi “salvatori l’uno dell’altro. Sono sempre di meno le persone disposte a soffrire per la persona a cui pur vogliono bene.

Quando una qualche sofferenza sopraggiunge, sono poche le persone che vedono in questo un’occasione di maggiore amore; al massimo vi vedono una ferita inferta all’amore, un’ingiustizia che pesa duramente sull’amore e lo allontana. Con una tale persuasione è difficile accorgersi che l’altro ― proprio perché gli sta chiedendo qualcosa di illimitato ― gli sta chiedendo in fondo di “essere per lui come Dio, come Cristo”, di essergli “salvatore”. Accade così che perfino dei coniugi decidano di sottrarsi l’uno all’altro proprio nel momento in cui la loro vicenda rassomiglia di più a quella di Cristo (“il Giusto che ha dato la vita per noi ingiusti!”), proprio nel momento in cui il sacramento si fa più vero ed esigente. E le famiglie, invece di vivere un progetto di santità, restano racchiuse in una “zona a rischio” dove “la prossima delusione può rivelarsi fatale.

Se una coppia o una famiglia vivesse la coscienza sacramentale di essere “un solo cuore ed anima”, nell’istante in cui uno infliggesse all’altro una qualche sofferenza, l’altro reagirebbe dicendo: “ti devo volere ancora più bene. Guarda di quanto amore hai bisogno! Non mi ero ancora reso/a conto di quanto amore tu avessi bisogno!”. Il sacramento del matrimonio dà oggettivamente ai due coniugi (e all’intera famiglia) “un solo cuore ed anima”.

Se si vuol sapere fino a che punto un tale sacramento sia logorato o resti invece fervido e vitale, basta osservare come i coniugi reagiscono nel momento in cui uno infligge all’altro una qualche delusione, una qualche ingiustizia: se il sacramento vive, i due vi sentono la violenta richiesta di un amore più grande (e non importa, qui, distribuire il torto e la ragione. Anzi!). Se il sacramento languisce e si consuma, i due si sentono giustificati nella loro decisione di non amare più e rimpiangono di essersi messi assieme, e fantasticano una separazione, anche se sanno che non l’attueranno mai.

Kierkegaard ha scritto che la persona più misera di tutte, quella psicologicamente e moralmente più avvilita, più immersa nella desolazione e nel fallimento, se capisce com’è fatto Dio, dovrebbe concludere di essere la più certa di tutte di essere amata.

Chi tra di noi si sente più meschino, più abbandonato, più desolato, uno che non conta niente dovrebbe essere la persona più sicura di essere amata perché a questo tende l’Incarnazione del Figlio di Dio. Ma se così è fatto l’amore di Dio, allora l’amore che noi dobbiamo mettere nel mondo (cominciando nelle famiglie) è dello stesso tipo. Perché il mondo diventi la famiglia di Dio, occorrono persone che concepiscano l’amore come il prendersi cura dell’altro, e tutte le volte che viene chiesto un di più di amore perché c’è stata una caduta, una rovina, l’amore vibra e si protende.

Ognuno si chieda dunque: che cosa mi accade quando l’altro esige da me più amore e lo esige perché evidentemente è più a terra, perché evidentemente non se lo merita?

Occorrono cristiani che impostino il rapporto affettivo, fin da ragazzi, dicendosi: “il nostro amore è un altro amore, il nostro cuore è un altro cuore. È per questo che io non posso giocare, non posso essere “volgare” nel mio rapporto con te!”.

All’inizio quando i cristiani convertirono il mondo, lo convertirono amandosi così.

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 22, NUMERO 3, Giugno 2021