Intervista al Prof. Stefano Zamagni (di P. Fabio Silvestri)
Stefano Zamagni è uno dei più grandi economisti italiani viventi, ma largamente apprezzato anche a livello internazionale, che ha all’attivo un numero imprecisato di incarichi, collaborazioni scientifiche e pubblicazioni (v. box). È inoltre l’iniziatore della “Economia Civile”, una nuova corrente di pensiero economico, le cui radici storiche affondano nella tradizione benedettino-francescana e nell’Illuminismo milanese e napoletano; una visione del mercato e dell’impresa antitetica a quella dominante, perché fondata non sull’individuo, ma sulla persona (e cioè l’individuo in relazione), per la ricerca della felicità pubblica (più che della ricchezza), anche attraverso il dono e la reciprocità. Ha collaborato con diversi Pontefici, anche per la scrittura di alcuni documenti del Magistero, ed è attualmente Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. Alla luce di un’amicizia personale che è ormai di lunga data – cresciuta anche grazie ad alcuni incontri di approfondimento proposti dal Movimento – abbiamo incontrato il Professor Zamagni per un’ampia e interessante intervista, su alcuni temi decisivi ed attuali: il senso della responsabilità civile a cui siamo chiamati, oggi più che mai, nel tempo della pandemia; la dottrina e il compito sociale della Chiesa. Ed abbiamo riscoperto come il senso più profondo di ogni responsabilità sia sempre la cura, del mondo e di ogni uomo.

In un suo studio recente, intitolato “Responsabili. Come civilizzare il mercato” (Il Mulino 2019), lei ha affermato che il concetto tradizionale di responsabilità è inadeguato a raccogliere le sfide della società contemporanea. Oggi sembra infatti sempre più necessario un senso di responsabilità che non si limiti a non fare ciò che non va fatto, ma che si esprima nella forma positiva di una cura. Può illustrarci meglio questa sua tesi?
La nozione di responsabilità come “imputabilità” (di un’azione) è antica quanto l’umanità, anche se bisogna arrivare sino all’epoca romana per avere la prima cristallizzazione del concetto, con il Codice Giustiniano. Il suo senso era ed è che ognuno è responsabile delle conseguenze delle azioni che compie. Va detto che il Cristianesimo aveva già prodotto l’altra nozione, che però non è mai stata considerata giuridicamente rilevante, ma solo eticamente: ed è la nozione della responsabilità intesa come “prendersi cura”. L’immagine più nota è quella della parabola del buon samaritano. Il buon samaritano non era infatti responsabile di quanto era accaduto al malcapitato, ma, nonostante questo, e a differenza degli altri due passanti, che evidentemente passano oltre alla luce dell’altra nozione di responsabilità (“se non l’ho ridotto io così, non sono tenuto a fermarmi”), si ferma e cura il poveretto. Come detto, quest’idea non è mai entrata, fino a tempi recenti, nell’ordinamento giuridico. Tanto è vero che c’è una sorta di parodia, di allegoria, proposta da Chesterton in un suo libro, pubblicato negli anni Trenta del secolo scorso, dal titolo Il club dei mestieri stravaganti, con la quale l’autore racconta la vicenda di un giudice che, anziché processare e condannare coloro i quali commettevano piccoli reati, processava e condannava coloro i quali si comportavano da egoisti, da “menefreghisti” e da opportunisti. Ma questo giudice sarà allontanato con l’accusa che… non è questo il compito dei giudici! Il compito dei giudici è punire chi fa cose sbagliate, malate o perverse. Chesterton conclude: “Verrà un giorno in cui questa nozione della responsabilità come prendersi cura tornerà in auge…!”.
Da alcuni decenni a questa parte, questa seconda nozione non solo è tornata in auge, ma in diverse sedi internazionali, tra le quali quella delle Nazioni Unite, si sta discutendo su come renderla oggetto di regolamentazione. Consideriamo l’esempio del degrado ambientale. Non dovrebbe essere più sufficiente, per un’azienda, per un manager, ma anche per un singolo cittadino, il fatto di dire: “Io non inquino, quindi non sono responsabile”. Perché il ragionamento dovrebbe diventare: “Tu cosa stai facendo, di ciò che è in tuo potere, per ridurre o evitare l’inquinamento che già c’è e ci sarà?”. Per trovare qualcosa di simile nell’ordinamento italiano, forse l’unico caso è quello del cosiddetto reato per “omissione di soccorso”. Il tentativo in atto è invece quello di estendere questa impostazione anche ad altri ambiti, sociali, commerciali, etc. La cosa interessante è che, ancora una volta, è l’intelligenza cristiana ad indicare la via, come ad esempio ha fatto di recente anche Papa Francesco nella Fratelli tutti, là dove utilizza e riprende la parabola del buon samaritano, per esprimere il senso di un’autentica responsabilità fraterna.
Di recente lei ha dedicato un approfondimento, coordinato con Sergio Gatti, alla possibilità di una finanza civile e lo ha fatto, tra l’altro, parlando di un “amore intelligente”: cioè di quel principio di azione da sempre indicato dalla Dottrina Sociale della Chiesa e che, in tempi recenti, ha legato le prospettive della Caritas in Veritate di Benedetto XVI alla Laudato si’ di Francesco. Può spiegarci meglio quale sarebbe questo filo rosso del pensiero ecclesiale?
In modo orientativo, si può affermare che la Dottrina Sociale della Chiesa nasce intorno al IV sec., durante la stagione dei grandi Padri della Chiesa (ad es. si pensi alle opere sociali realizzate per volontà di Basilio di Cesarea): non è quindi, come molti pensano o insegnano, un tipo di riflessione legato soltanto alla modernità. Nel corso del tempo, come ovvio, ha semmai calibrato i propri princìpi fondativi sulla realtà storica contingente. Quando arriviamo ai tempi moderni si è soliti indicare la Rerum Novarum di Papa Leone XIII come primo inizio di questo filone di pensiero nel contesto della società industriale e della cosiddetta seconda rivoluzione industriale. Con la pubblicazione della Centesimus Annus di Giovanni Paolo II, poi, si inaugura la stagione della riflessione sociale della Chiesa nel contesto della contemporaneità. In questo documento, infatti, il Papa, senza limitarsi a denunciare limiti e attività immorali che possono avvenire nella sfera economica, sociale e finanziaria, si premura di indagare le vere cause di questi mali e di intervenire su di esse. Giovanni Paolo II, per questa ragione, introduce il concetto di “struttura di peccato”, un concetto fondamentale (già in qualche modo anticipato da Paolo VI) che purtroppo i teologi di oggi non richiamano quasi mai. Qual è il senso dell’espressione “struttura di peccato”? Il riferimento è all’esistenza di alcune “strutture” economiche e sociali che sono, in se stesse, come strutture capaci di generare il male, indipendentemente dalle loro singole attività che, dentro quelle strutture, svolgono le persone che in esse operano. Qual è la novità? Che mentre per la teologia morale il peccato era sempre legato ai comportamenti individuali, come pure viceversa la conversione, in questo senso diventa rilevante anche il “comportamento sociale di un’istituzione”. Ad esempio, in una banca, in un’azienda, etc. sarà possibile che le stesse regole di funzionamento di quelle realtà provochino un male, anche a prescindere dal comportamento dei singoli che lavorano in essa. Il male infatti può non essere solo nelle singole persone, ma anche nelle strutture, cioè nelle istituzioni. L’implicazione è che bisogna lavorare per cambiare le istituzioni. In questo senso, anche il compito del Magistero odierno può essere quello di affermare che un certo tipo di economia uccide, che un certo sistema finanziario produce effetti perversi gravi e così via. Leone XII, Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII ci invitavano alla denuncia degli effetti perversi e arrivavano a sollecitare la solidarietà per portare aiuto, conforto. È chiaro che questo deve continuare, ma ora si prova a dire che tutto questo non basta. La crisi di alcuni approcci etici della Chiesa può dipendere dal fatto che essa continui ad insistere sulla morale individuale. Bisogna invece mettere l’accento sulle strutture e sulla loro natura etica, per aprire gli occhi alle persone, per far sì che si responsabilizzino, poiché ognuno di noi ha un contributo da dare. Nella Caritas in veritate c’è un punto fondamentale, che ha bisogno di una breve ricostruzione. Nella fase preparatoria il gruppo di lavoro aveva proposto al Papa di denominarla Veritas in caritate. Io ero a favore di Caritas in veritate e, pur essendo l’unico laico del gruppo di lavoro, mi sono battuto contro gli altri nove, arrivando persino ad alzare la voce e facendo sì che alla fine si lasciasse decidere il Papa. Il Papa decise alla fine per Caritas in veritate. Perché? Perché anche la scienza ricerca la verità, come anche altre discipline o istituzioni. Nel Cristianesimo, invece, la sottolineatura è che la carità si deve praticare nella verità. Il primato è del bene sulla verità. S. Tommaso riprende questa affermazione di Aristotele e dice che il bene comprende la verità. Viceversa non è sempre vero. Perché ad esempio si potrebbe essere nella verità, ma non generare il bene.
Continua a leggere
Che cosa ci ha insegnato il tempo della pandemia in ordine ai rapporti sociali ed economici e, più ancora, intorno ai concetti di comunità e globalità?
La vicenda pandemica è un evento, non uno stato. E, come tutti gli eventi, arriva e poi se ne va. Se fosse uno stato, sarebbe qualcosa di diverso. Come per tutti gli eventi, però, i segni che lascia devono essere opportunamente interpretati e colti. Quali sono?
Innanzi tutto dobbiamo fare tutti un bagno di umiltà. E per tutti intendo politici, scienziati, operatori, studiosi, persone comuni perché quello che la pandemia ha messo in evidenza è quel fenomeno che i greci chiamavano “hybris”, cioè l’orgoglio, la superbia di chi si ritiene quasi come Dio. Invece nonostante la convinzione di una certa “onnipotenza”, o quanto meno illimitatezza, che si era diffusa negli ultimi decenni e legata agli avanzamenti della ricerca scientifica, ci siamo resi conto che un virus come questo ha tenuto e tiene ancora in sospeso il mondo intero. Ci vuole umiltà. Umiltà deriva dal latino humus, cioè terra: quindi essere umili vuol dire… stare con i piedi per terra! Cioè stare saldi sulla propria verità, anche se umile.
In secondo luogo, dovremmo recuperare quella virtù che San Tommaso chiamava l’auriga di tutte le virtù (auriga virtutum). La prudenza è infatti la virtù che guida tutte le altre, eppure non se ne parla mai. Si parla della fortezza, della temperanza, ma mai della prudenza. Come mai? Il punto è che la parola prudenza traduce il greco “frònesis”, tradotto con saggezza. Quindi prudente è il saggio e il saggio è l’uomo prudente. Perché prudente è il soggetto che guarda in avanti, come lascia intuire il latino “pro-videntia”, che significa sguardo rivolto in avanti. Guardando in avanti si possono infatti intercettare i segni dei tempi e agire di conseguenza. Nel linguaggio corrente, invece, la parola prudenza viene a denotare il comportamento di chi ha paura, di chi non vuole rischiare: ma questa è una riduzione, se non addirittura una inversione del suo significato. Ad esempio, nella parabola dei talenti, a chi restituisce il solo talento ricevuto, il talento poi viene tolto. L’uomo è punito. Perché? Perché non è stato prudente – dice il Vangelo – nel senso che per paura ha guardato solo l’immediato e non in avanti, e quindi ha nascosto il talento. Parlare oggi della prudenza vuol dire insistere sulla capacità di lettura della realtà e farlo a diversi livelli: politico, sociale, economico, antropologico.
Dopo aver parlato di umiltà e prudenza, mi viene da dire che anche nel tempo della pandemia occorre ritornare all’etica delle virtù. L’etica delle virtù nasce con Aristotele, ma la sua vera proposta la si deve al Cristianesimo, soprattutto a San Tommaso, alla scuola francescana, etc. Oggi vediamo che l’etica delle virtù è in grande ripresa in tutto il mondo, anche se purtroppo in ambienti non cristiani e… questo è il paradosso! Il Cristianesimo, che ha dato le ali all’etica delle virtù, oggi ne parla meno. Eppure la prassi e la riflessione sono basate sull’esercizio delle virtù, mentre gli altri orientamenti etici dell’utilitarismo, del deontologismo e del consequenzialismo sono in crisi. Questo significa, in positivo, sapere come declinare l’esercizio delle virtù nella situazione attuale. Anche virtù deriva dal latino vis, che vuol dire forza. La virtù è infatti un’azione buona che deve essere ripetuta tante volte. Una volta che la virtù è diventata un’abitudine (habitus) non la si perde più. La pratica delle virtù non si può realizzare per via intellettuale, ma con un’educazione del cuore. Forse anche per questo nella Chiesa di oggi c’è un allontanamento, in particolare sul versante morale: d’altra parte non si fa più educazione alle virtù. Si fa educazione con il catechismo per trasmettere alcuni princìpi, il che è importante ma non basta. Bisogna educare il cuore, che è il luogo delle virtù.
Durante la pandemia, le sembra che il Terzo settore sia stato coinvolto – e sia tuttora coinvolto – in un processo di cura comunitaria e sociale, in particolare delle situazioni di fragilità?
Questa è una provocazione! (ndr: detto scherzosamente!). E allora rispondo chiaramente… La critica più rilevante da portare al modo con cui la pandemia è stata gestita in Italia non è solo la sottovalutazione, ma l’emarginazione degli enti del Terzo settore. Non perché nel Terzo settore si aspettassero qualcosa, qualche briciola di denaro o di funzioni, ma perché questa gestione ha tradito in maniera plateale il principio di sussidiarietà. Dire Terzo settore e dire sussidiarietà è come parlare di una moneta che ha due facce. Perché non affidando al Terzo settore un ruolo di cura ed aiuto (che per sua costituzione genetica sarebbe in grado di svolgere) non si prende nella giusta considerazione il principio di sussidiarietà. Vuol dire che si pensa di governare una società come la nostra soltanto all’interno di due strutture – lo Stato e il mercato – escludendo la terza gamba che è la comunità. L’ordine sociale è invece tri-polare: Stato – mercato – comunità. Nella gestione della pandemia il terzo polo è stato completamente bypassato e ne vediamo le conseguenze e gli effetti perversi. Il Terzo settore va visto in quest’ottica, altrimenti si rischia di cadere nel vizio italico di rappresentare qualcosa o qualcuno solo per bussare e darsi da fare per avere qualche soldo. Il punto non è quello. Il punto è che non si riesce a spiegare perché questa gestione è stata data in mano a dei politici, e non anche a coloro i quali rappresentano le diverse anime della società civile organizzata. Facciamo un esempio macroscopico tra i tanti: la Chiesa italiana, con il suo valore, la sua funzione, è stata svilita. Qualcuno dice che questo è accaduto perché la Cei non si è data da fare. Ma a questo va aggiunto che la considerazione politico-sociale del suo rilievo è stata nulla. Oggettivamente se uno dovesse dire qual è stato il ruolo della Chiesa durante la pandemia, almeno come istituzione italiana, si può dire che è vicino allo zero. I singoli sacerdoti hanno fatto la loro azione di predicazione, di preghiera… e va benissimo, ma stiamo parlando di un’altra dimensione, che da sempre appartiene alla Chiesa, e che qui è stata completamente bypassata. Non fu così nel passato. Dovremmo riconsiderare, per avere un’idea, cosa fece la Chiesa istituzione in Italia subito dopo la fine della seconda guerra mondiale… ce ne rendiamo ancora conto? Se con ci fosse stata, con la sua opera di assistenza, saremmo morti tutti di fame. In questa circostanza, invece, la sua presenza e il suo coinvolgimento sono sembrati molto ridotti e, a volte, schiacciati sulle decisioni statali.
Il suo studio, il suo pensiero e il suo lavoro sono da sempre anche a servizio della Chiesa, che da parte sua lo ha nominato Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali: secondo lei, di cosa ha più bisogno il cammino della Chiesa oggi ed è vero, come ha detto qualcuno, che ormai la Chiesa “brucia”?
La Chiesa non brucia, se non d’amore. La Chiesa è guidata dallo Spirito Santo. La Chiesa nel corso del tempo è stata soggetta ad alti e bassi, sociali, vocazionali, profetici… e solo chi non ha studiato un po’ di storia può non esserne consapevole. Oggi dunque, non brucia niente. C’è crisi. Ma crisi è una bella parola. È una parola greca che vuol dire essere in transito. Oggi la Chiesa è in transito, cioè ha abbandonato la vecchia sponda della cristianità legata alla fase storica che abbiamo lasciato alle spalle e sta andando verso una nuova sponda del fiume che ancora non è nota. Ma noi sappiamo che il traghettatore si chiama Spirito Santo e che Lui sa fare il suo mestiere…
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 22, NUMERO 4, Settembre 2021
Stefano Zamagni – Economista italiano, ex presidente dell’Agenzia per il terzo settore. Si è laureato nel 1966 in Economia e Commercio presso Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Si è specializzato nel 1973 presso il Linacre College dell’Università di Oxford. Tornato in Italia, ha iniziato a insegnare presso l’Università di Parma, ottenendo poi nel 1979 l’ordinariato di Economia politica all’Università di Bologna. Due anni prima aveva iniziato ad insegnare presso la Johns Hopkins University, Bologna Center. Dal 1985 al 2007 ha insegnato Storia dell’analisi economica alla Bocconi di Milano; per l’Università di Bologna ha ricoperto numerosi ruoli, tra cui la presidenza della Facoltà di Economia, impegnandosi negli anni soprattutto negli studi sul mondo del no profit.
Nel 1991 è diventato consultore del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. Nel 1999 venne ammesso alla New York Academy of Sciences. Nel 2007 il governo lo ha nominato presidente dell’Agenzia per le Onlus, un ente governativo con funzioni di vigilanza e controllo, promozione, consulenza a Governo e Parlamento in materia di associazioni no profit. In quanto consultore del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, fra il 2007 ed il 2009 è tra principali collaboratori di Papa Benedetto XVI per la stesura del testo dell’Enciclica Caritas in Veritate. Il 9 novembre 2013 è stato nominato da Papa Francesco membro ordinario della Pontificia Accademia delle Scienze; il 27 marzo 2019 lo stesso Papa Francesco lo ha nominato Presidente.
È autore inoltre di numerose pubblicazioni – libri, volumi editati, saggi – di carattere scientifico, così come di contributi al dibattito culturale e civile. Fra le prime, si segnalano i manuali in uso in moltissime università: Istituzioni di Economia Politica. Un testo europeo, Bologna, II Mulino, 2002 (in collaborazione con T. Cozzi); Microeconomia, Bologna, II Mulino, 1997 (in collaborazione con F. Delbono); Profilo di storia del pensiero economico, Roma, Nuova Italia Scientifica 2004 (in collaborazione con E. Screpanti); Economia Civile (in coll. Con L. Bruni), Bologna, Città Nuova, 2007. La cooperazione (con V. Negri), Bologna, Il Mulino, 2008; Impresa responsabile e mercato civile, Bologna, Il Mulino, 2013; Handbook on the Economics of Reciprocity and Social Enterprise (con L. Bruni), Elgar, Cheltenham, 2013; Mercato, Torino, Rosenberg, 2014; L’economia civile (con L. Bruni), Il Mulino, 2015; Prudenza, Bologna, Il Mulino, 2015; Banche di comunità. Cambiare senza tradire, Ecra, Roma, 2018.