(di Massimo Gelmini)
L’esodo dei Rohingya raccontato attraverso le fotografie di reporter di agenzie di stampa internazionali colpisce per la vastità del dramma che essi stanno vivendo e per la gravità della persecuzione di cui sono oggetto. Queste immagini, che ritraggono persone nella condizione di assoluta indigenza e oppressione, mentre fuggono dopo aver perso ogni cosa, compresa la possibilità stessa di fermarsi per piangere, contengono un grido di dolore che non può rimanere inascoltato.

Un urlo fermato in uno scatto
«C’era molto caos nel bazar di Cox, Bangladesh, quel giorno. Era la prima distribuzione di cibo a cui assistevo in questo viaggio. La gente urlava e si ammassava attorno al camion esausta e affamata. Fu allora che vidi quel ragazzino. Si era sollevato aggrappandosi all’autocarro e piangeva. Non riuscivo a capire molto a causa delle grida concitate, ma scorsi il ragazzino staccare la mano dalla presa e afferrare la gamba di un addetto alla distribuzione. Poi lo vidi avvolgere le braccia attorno alla gamba dell’uomo per tirarsi su, implorando tra le lacrime che gli scendevano sulle guance. La scena mi colpì: vedere la disperazione di quel ragazzino che cercava un appiglio e insisteva per ricevere qualcosa da mangiare. A quel punto mi fu chiaro quanto triste sarebbe stata questa storia».
Sono le parole con cui Kevin Frayer, giornalista e fotoreporter, ha descritto su Time quello che ha visto e fotografato della nuova fase della crisi umanitaria del popolo Rohingya, in fuga dal Myanmar, lo scorso ottobre. Dalla sua fotocamera sono venute fuori immagini drammatiche e potenti, che provano a rappresentare l’esodo di un popolo che da mesi è costretto ad abbandonare case e villaggi per sfuggire ad un nemico che lo vuole letteralmente annientare.
Dal primo punto di approdo oltre il confine, dopo l’attraversamento del fiume Naf che sfocia nella baia del Bengala a sud dell’isola di Shah Porir Dwip, l’obiettivo di Frayer ha raccontato una parte di questo viaggio, soffermandosi sui volti stanchi e scavati dalla fame, mostrando momenti di vita all’interno di campi profughi sovraffollati e insufficienti, cogliendo la paura nello sguardo di una donna che viene tratta in salvo dal naufragio dell’imbarcazione che avrebbe dovuto portarla al sicuro. «Le barche che trasportano i rifugiati arrivano di solito di sera, con il favore dell’oscurità. Le onde sono spesso molto forti e succede che le imbarcazioni si capovolgano. In questi casi non ci sono ricerche o azioni di soccorso. Chi cade in acqua è perduto e non resta altro che attendere che i corpi delle vittime siano portati a riva».
Frayer guarda i sopravvissuti che si riorganizzano prima di intraprendere un altro trasferimento in barca e poi via terra verso i vari campi profughi. I loro corpi dolenti, malnutriti, amputati, feriti, senza vita sono stati ritratti dentro scatti in bianco e nero da cui proviene un grido di dolore muto che non si può non sentire. «Avverti la perdita, la disperazione, la tragedia, ma anche il sollievo. È il viaggio più triste che possa capitare ad un uomo. E ciò che colpisce è che tutto appare così calmo. Può esserci qualcuno che si lamenta o un neonato che piange, ma di solito al momento dell’arrivo c’è silenzio».
«Il mio mondo è finito»
Frayer, che lavora per Getty Images, non è l’unico fotoreporter ad aver rivolto l’attenzione a quanto sta accadendo in Myanmar. Altre agenzie e testate giornalistiche stanno seguendo con interesse questa crisi che sta sconvolgendo il Paese, dove da mesi avvengono scontri molto duri tra ribelli di etnia Rohingya e l’esercito birmano, accusato di compiere violenze sistematiche contro la popolazione nativa della regione settentrionale del Rakhine, una minoranza musulmana discriminata e perseguitata da decenni in un Paese che è di maggioranza buddista.
All’inizio di novembre si stimava che più di 610 mila persone avessero varcato il confine per rifugiarsi nel vicino Bangladesh, dove è scattata l’emergenza per la gestione di una massa crescente di sfollati. I morti sarebbero già diverse centinaia. Le più importanti organizzazioni umanitarie hanno avviato campagne di sostegno per i profughi, denunciando lo stato gravissimo in cui versano queste persone, vittime di quello che l’Onu ha definito «un esempio da manuale di pulizia etnica». Ad ottobre un rapporto diffuso da Amnesty International, intitolato Il mio mondo è finito. Rohingya vittime di crimini contro l’umanità in Myanmar, rivelava la strategia del massacro adottata dagli assalitori per espellere dal Paese del sudest asiatico la minoranza musulmana, che — secondo quanto raccolto nel corso di più di un centinaio di interviste fatte a testimoni Rohingya sfuggiti alle violenze — prevederebbe l’attacco ai villaggi, poi dati alle fiamme senza che le persone anziane, malate o disabili possano salvarsi, il rapimento e lo stupro sistematico di donne e ragazze, l’uccisione dei fuggitivi colpiti alle spalle mentre tentano di scappare.
Secondo le dichiarazioni raccolte, responsabili di queste atrocità sarebbero le truppe del Comando occidentale della Birmania (le forze di sicurezza del governo), con il coinvolgimento di divisioni dell’esercito, della polizia di frontiera e di bande di vigilanti buddisti. L’analisi delle immagini satellitari delle aree interessate da queste violenze e di altro materiale video girato da terra confermerebbe la distruzione con il fuoco sistematica e selettiva dei soli luoghi abitati dai Rohingya, delle loro case e moschee. Le gravi accuse di violazioni e crimini contro l’umanità chiamano in causa direttamente le forze armate e il governo di cui è consigliere di Stato e ministro il premio Nobel per la pace San Suu Kyi, alla quale sono state rivolte pesanti critiche e ripetute richieste di chiarimento e assunzione di responsabilità.
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Chi sono e dove vanno i Rohingya?
I Rohingya sono una minoranza etnica e religiosa costituita da circa 1 milione e 100.000 musulmani che vive nel nord dello Stato del Rakhine, situato sulla costa occidentale del Myanmar. Oppresso da decenni, tanto da aggiudicarsi il primato di «minoranza più perseguitata del mondo e popolo meno voluto della terra», questo gruppo etnico non ha mai ottenuto il riconoscimento della cittadinanza da parte del governo birmano che di fatto considera queste persone come «stranieri residenti», senza diritti civili o legali e ai quali viene negato il diritto di possedere la terra. I movimenti nazionalisti estremisti del Myanmar insistono nell’accusare i Rohingya di essere immigrati illegali dal Bangladesh, verso il quale vorrebbero respingere l’intera popolazione.
Nel 2012 molti scontri sanguinosi con i buddisti locali provocarono la fuga di circa 140.000 persone, che intrapresero viaggi pericolosi per raggiungere la Thailandia, la Malesia o l’Indonesia, dove tuttora i sopravvissuti vivono in condizioni di sfruttamento. La crisi attuale è scoppiata a partire dallo scorso 25 agosto, in seguito ad alcuni attacchi coordinati che ribelli Rohingya hanno organizzato ai danni di stazioni di polizia delle forze di sicurezza birmane (provocando 12 morti tra i militari), le quali hanno dato inizio ad una violenta e spropositata controffensiva che non ha più avuto tregua.
Il libero accesso alle zone maggiormente colpite dalle violenze, nel nord dello Stato del Rakhine, è stato impedito ai media e alle organizzazioni umanitarie che possono operare solo fuori confine, nei luoghi di confluenza dei profughi, per lo più in Bangladesh. È qui che da settimane si sta riversando una massa di uomini, donne e bambini, in condizioni di indigenza, in cerca di cibo, acqua e rifugio. Il loro esodo è mosso dalla paura e guidato dallo spirito di sopravvivenza, spinto dall’urgenza che non concede tempo per pensare a quanto è stato lasciato, per fermarsi a piangere le proprie perdite, seppellire i morti o per elaborare il lutto (These people don’t have the time to mourn è il titolo di un altro reportage del fotografo di Associated Press Dar Yasin).
Sullo sfondo lo spettro del terrorismo
Oltre alla vastità del dramma umanitario, ha suscitato reazioni a livello internazionale la debole presa di posizione del governo di Naypyidaw che ha da subito respinto le accuse di un proprio coinvolgimento negli scontri, annunciando poco convincenti indagini all’interno dell’esercito, senza però dimostrare una ferma e chiara volontà di risolvere il conflitto. Aspramente contestata per il suo mancato intervento in difesa dei Rohingya, Aung San Suu Kyi, annunciava finalmente, in occasione della sua prima visita ufficiale nella zona il 2 novembre, l’intenzione del governo di avviare un piano di rimpatrio per i profughi.
Una certa preoccupazione è stata anche espressa per la possibilità, che gli analisti ritengono assai probabile, che si sviluppi nel prossimo futuro in Myanmar una componente radicale islamista, a partire dal rafforzamento di ARSA (sigla inglese dell’Esercito per la salvezza dei Rohingya nel Rakhine), il gruppo di ribelli che si sta scontrando con l’esercito birmano, guidato da Ata Ullah, un rohingya figlio di perseguitati del governo del Myanmar, nato in Pakistan e cresciuto e formato in una scuola coranica in Arabia Saudita.
La militanza di Ullah e il reclutamento di giovani combattenti sarebbero iniziati proprio nel 2012, dopo gli scontri tra buddisti e musulmani, ma solo negli ultimi tempi l’organizzazione avrebbe trovato un maggiore appoggio tra la popolazione locale — poco incline al ricorso alla violenza e storicamente lontana da forme di radicalizzazione islamista — anche a causa dell’inasprimento delle discriminazioni attuate dal governo birmano. Nonostante il leader di ARSA neghi di avere legami con organizzazioni terroristiche internazionali ed escluda di avere obiettivi diversi dalla liberazione dei Rohingya, il rischio che questo gruppo — che già godrebbe di finanziamento e supervisione dall’estero — possa allargare la propria azione e rivedere le proprie finalità è concreto. In questo contesto, è auspicabile che il governo e l’esercito del Myanmar facciano tutto il possibile per fermare questo processo disastroso, cercando e preferendo la soluzione politica a risposte aggressive e repressive.
«La Chiesa non resta silenziosa», ha affermato il cardinale Charles Maung Bo, ricordando la visita nel Paese di Papa Francesco a novembre. «Stiamo lavorando per portare una certa comprensione tra i vari attori, a livello sociale, politico e religioso. La Chiesa sostiene i diritti fondamentali di tutti, inclusi i Rohingya. In Myanmar anche altri gruppi etnici minoritari di religione cristiana (come kachin, kayah e karen) continuano ad essere in conflitto con l’esercito e subire sfollamento. I vescovi birmani sostengono la dignità di ogni uomo e il bene di tutti i popoli».
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 18, NUMERO 4, Dicembre 2017