Intervista a P. Marco Chiesa ocd

(a cura di Monica Parolini)

 

I santi hanno una grandissima rilevanza nella Chiesa, anche se troppo spesso percepiti come figure inarrivabili che possiamo giusto pregare, ma senza ambire a divenire tali a nostra volta. Eppure, se proviamo a superare alcuni luoghi comuni e alcuni preconcetti, possiamo riscoprire la dimensione della santità come la vocazione per eccellenza a cui tutti siamo chiamati. Ma quindi, chi sono davvero i santi? E in che modo la Chiesa che è per definizione “comunione dei santi”, ossia di tutti i fedeli ci aiuta a desiderare e ad accogliere pienamente questo dono, anche attraverso la testimonianza dei santi canonizzati? Ne abbiamo parlato con P. Marco Chiesa, Postulatore Generale delle cause dei santi dell’Ordine dei Padri Carmelitani Scalzi.

 

 

Chi è un santo?

Questa è davvero una domanda grossa e difficile… ma proviamo a fare alcuni accenni, che possano servire come coordinate, per capirci.  Anzitutto occorre partire da “il Santo” — con la “S” maiuscola —, che è Dio, così come viene chiamato nella Scrittura. Lui è il Santo e tutto ciò che tocca o entra in contatto con lui diventa santo, cioè consacrato a lui, dedicato a lui. Non solo, nel cuore del Pentateuco abbiamo un comandamento importante: «Siate santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo» (Lv 19,2); appartenere al suo popolo ed essere in contatto con lui con la preghiera e i sacrifici deve portare, come conseguenza naturale, a lasciarsi coinvolgere totalmente da lui, in un rapporto di amicizia profonda, addirittura sponsale. Dio, infatti, sa benissimo che l’uomo è una creatura fragile, ma non desidera altro che la sua disponibilità, per poterla trasformare nella santità.

Facendo un passo avanti arriviamo al Nuovo Testamento e in particolare agli Atti degli Apostoli e alle lettere di Paolo. Qui scopriamo che tra i vari titoli i primi cristiani usavano chiamarsi “i santi” e questo non per sopravvalutazione o superbia, ma perché col Battesimo si entra nella condizione di santi, immacolati e predestinati alla vita eterna. Dunque, per noi cristiani la santità è un dono che ci viene dato fin dall’inizio del nostro cammino. Questo — capisce bene — rovescia completamente il modo antico di concepire la santità (purtroppo ancora attuale): infatti, non si tratta di conquistare qualcosa con la nostra buona volontà e i nostri sforzi, ma di custodire un dono, che ci è stato fatto, e di vivere di conseguenza. È come quando, nella nostra vita, troviamo un dono speciale — che può essere una persona, un lavoro o altro — e tutto, in qualche modo, cambia: gli atteggiamenti, la scelte, il linguaggio, gli orari si modificano in modo quasi naturale, perché quel dono va a determinare tutta la vita.

Ecco, il santo è colui che conserva il dono, che gli è stato fatto nel Battesimo; lo custodisce, lascia che la sua vita si trasformi, e cammina in modo determinato verso la meta della vita eterna, dove quella santità giungerà a pienezza e risplenderà per sempre, nel Santo dei Santi. Certo, ci sono gli ostacoli e i limiti umani, che non rendono sempre facile questo cammino nella santità, ma sappiamo che il Signore non viene mai meno a chi cammina alla sua luce: la Grazia è fondamentale e ci accompagna anche nei momenti difficili, consentendo di mantenere la serenità e la gioia, là dove umanamente si potrebbe leggere solo paura, sconfitta e dolore.

Qual è l’iter che viene seguito per arrivare a proclamare santa una persona e perché la Chiesa ha definito proprio questa modalità?

Anche questo discorso è molto ampio e noiosamente tecnico, ma, partendo dagli elementi fondamentali, credo che potremo intenderci. Tutto parte dalla convinzione che un gruppo consistente (una diocesi, un istituto religioso, un’associazione, ecc.) ha nei confronti di una persona defunta, ritenendo cioè che essa abbia vissuto in modo esemplare le virtù, oppure sia morta martire, oppure abbia offerto la sua vita per la carità. Questo è il punto di partenza e queste sono le cosiddette “tre vie” per la proclamazione di santità.

Al Vescovo della diocesi dove è morta la persona in questione viene affidato il compito di valutare, in modo accurato, se tale convinzione sia reale oppure no: questa valutazione si chiama “Inchiesta diocesana” e, dal suo inizio, la persona esaminata assume il titolo di “Servo di Dio”. L’Inchiesta consta, fondamentalmente, di due grandi percorsi: da una parte, c’è la raccolta di tutta la documentazione sulla persona ed eventuali suoi scritti; dall’altra parte, si raccolgono le testimonianze dirette o indirette sul Servo di Dio. Tutto questo materiale, debitamente valutato da più persone, viene inviato al Dicastero delle Cause dei Santi.

Qui inizia la cosiddetta “Fase romana” con un primo passaggio tecnico che è l’esame di validità del materiale inviato dalla Diocesi, dal punto di vista formale giuridico. Dopo questo, una persona (il Postulatore o un suo Collaboratore) si occuperà di redigere la “Positio” in stretta relazione con un membro del Dicastero (Relatore). La “Positio” non è altro che un volume, in cui si fa la sintesi di tutta la documentazione dell’Inchiesta diocesana, cercando di dimostrare rigorosamente, dal punto di vista storico e teologico, che quel Servo di Dio effettivamente ha vissuto in modo esemplare le virtù o è morto martire o ha offerto per amore la sua vita. 

A questo punto, si entra nella fase di esame e giudizio. Infatti, il documento passa anzitutto attraverso una commissione storica (se necessario) e poi attraverso una commissione teologica. L’esito di questo esame, insieme alla Positio, viene, quindi, valutato ancora da un gruppo di Cardinali e Vescovi i quali daranno il loro parere a riguardo. L’ultimo passaggio è il giudizio personale e inappellabile del Papa, che, se favorevole, dichiarerà con un decreto la “venerabilità” del Servo di Dio; nel caso dei martiri, insieme alla “venerabilità”, il Papa stabilisce anche la sua “beatificazione”.

Questo, in sintesi, è il lungo e complesso cammino che compie la Chiesa in prima persona. Ma poi c’è, per così dire, la “risposta di Dio”, una specie di sigillo che il Signore pone a garanzia di questo itinerario e che consiste nel famoso miracolo. Infatti, sia per la beatificazione (tranne appunto per i martiri) sia per la canonizzazione, la Chiesa abitualmente invoca da Dio un segno specifico; e una eventuale grazia ottenuta per intercessione del Venerabile o del Beato, affinché possa essere considerata come autentico miracolo, dovrà passare un itinerario quasi identico a quello che abbiamo appena descritto per la venerabilità.

Sì, di fronte a un tale impianto lungo e complesso, sorge ovvia la domanda: “perché tutto questo?”. Diciamo che si tratta di un processo che si è evoluto molto lungo la storia, partendo dalle proclamazioni “a furor di popolo” dei primi secoli, fino all’iter del XIX secolo e inizi del XX, quando giunse a una complessità ancora maggiore rispetto a ora. Ma, appunto, perché tutta questa complicazione? Diciamo che fin dai primi secoli non sono mancati gli abusi anche in questo campo, come per esempio la proposta di persone che non erano realmente virtuose o martiri, oppure la venerazione di sepolcri sospetti. Così, il processo di riconoscimento di una persona come Santa ha subito una lunga e continua evoluzione lungo i secoli e anche una centralizzazione dalle Diocesi verso la S. Sede. Ma tutto questo non è solo per contrastare gli abusi, bensì anche per una motivazione più profonda: quando la Chiesa dichiara ufficialmente una persona come santa e la propone a tutti come esempio e come riferimento di culto, si sta impegnando in qualcosa di grande e definitivo, per cui deve essere sicura che ciò sia reale e che sia secondo la volontà del Signore. 

La Chiesa di oggi è molto attenta a presentare la santità come chiamata rivolta ad ogni fedele. In realtà, per molti, la santità è ancora legata ad una dimensione mistica irraggiungibile, anche a causa di una narrazione spesso concentrata sull’estrema perfezione e sulle incredibili virtù di queste figure, a scapito della loro umanità, oltre al fatto che solo di recente hanno iniziato a diffondersi figure di santi laici. Dalla sua posizione, rileva dei cambiamenti in questo senso?

Sì, l’analisi da lei fatta è vera, purtroppo, ma ci sono dei cambiamenti percepibili, grazie a Dio! Indubbiamente, nei secoli sono stati esaltati alcuni aspetti della santità, che l’hanno resa davvero irraggiungibile: basti pensare all’attenzione posta sui doni soprannaturali o ai prodigi che avvenivano nella vita dei santi, tanto che — per fare un esempio — quando ci si è trovati di fronte a un Tommaso d’Aquino, che aveva dedicato tutta la vita alla preghiera e allo studio del mistero di Dio, alcuni hanno molto esitato, perché non c’erano notizie di particolari prodigi. D’altro canto, anche l’insistenza sul termine “eroicità” non ha aiutato: se, infatti, è più facile comprenderne l’importanza a livello di martirio, quando si parla di virtù, l’eroicità ci porta col pensiero a personaggi come Achille o Ercole, dalle caratteristiche sovrumane, disposti ad affrontare in modo straordinario qualsiasi sfida. 

Per fortuna, nella storia della Chiesa non sono mai mancati richiami pastorali alla vera essenza della santità, anche attraverso la proposta di figure che non sembravano poi così “eroiche”, dal punto di vista delle gesta. Possiamo dire che un primo cambiamento è già iniziato nel 1800, con l’incremento di figure femminili religiose di tipo apostolico; ma si nota anche una maggiore attenzione ai laici a partire soprattutto dal XX secolo. Sarà poi il Concilio Vaticano II a dare una forte scossa alla Chiesa, anche in questo ambito specifico della santità; e, dopo il Concilio, contribuiranno notevolmente sia la riforma di semplificazione delle Causa di canonizzazione, sia — non possiamo ignorarlo — la forte spinta di Giovanni Paolo II. Possiamo dire che, a partire da quei decenni, la santità è molto più rappresentativa sia a livello vocazionale (non solo chierici e religiosi, ma anche tanti laici) sia a livello geografico (non solo l’Europa, ma tutti i continenti).

Che cosa può davvero riportare la santità nella sua giusta dimensione, ossia una vita che si lascia attraversare dalla Grazia di Dio che agisce, piuttosto che gesta eroiche dell’uomo?

Per rispondere a questa domanda, oltre a quanto già detto, faccio riferimento a tre documenti — tra i tanti — del Magistero della Chiesa. Abbiamo appena accennato al ruolo del Concilio Vaticano II ed è proprio all’interno della “Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium” che troviamo un intero capitolo (il V) dedicato all’Universale chiamata alla santità nella Chiesa: si tratta di quattro numeri soltanto (dal 39 al 42), ma di una densità sorprendente. Pensi che l’inserimento del tema in questo documento importante e la sua collocazione dopo l’esame delle varie “figure” della Chiesa, sono stati oggetto di grande discussione all’epoca, ma ci danno la giusta dimensione della santità, proprio come opera di incontro tra la Grazia divina e la disponibilità umana: un cammino accessibile a tutti.

Con una passo avanti, giungiamo alla “Lettera apostolica Novo Millennio Ineunte”, con cui Giovanni Paolo II tracciava il cammino per la Chiesa che usciva dalla celebrazione del grande Giubileo dell’anno 2000. Ebbene, in modo sorprendente nei numeri 30 e 31 egli chiede di inserire la santità nei programmi pastorali della Chiesa; dico “sorprendente”, perché nei programmi delle Conferenze episcopali, delle Diocesi e della Parrocchie i temi principali focalizzati in genere sono altri: certamente tutti giusti e importanti, ma il rischio è quello di dimenticare che la santità è il modo di vivere e affrontare qualsiasi cosa dentro e fuori la Chiesa, è una realtà che riguarda l’essere cristiano e, spesso, è più facile pensare al fare.

Infine, accenno all’attuale Papa, Francesco, che ci ha donato l’“Esortazione apostolica Gaudete et Exsultate sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo”. Con il suo stile brioso ma per nulla scontato, il S. Padre offre un’analisi molto acuta della santità e dei pericoli che la minacciano, ma, soprattutto, traccia un itinerario concreto e utile a tutti, che si articola in tre passaggi fondamentali. Anzitutto, invita a guardare al Maestro attraverso le otto beatitudini, perché solo lui è modello autentico della santità e i Santi non sono che un suo speciale riflesso. In seguito, analizza quelle che devono essere le caratteristiche della santità nel mondo attuale: cioè la sopportazione, la pazienza e la mitezza; la gioia e il senso dell’umorismo; l’audacia e il fervore; la vita nella e con la comunità cristiana; la preghiera costante. Infine, si sofferma su tre ingredienti importanti e universali per il cammino di santità: cioè il combattimento, la vigilanza e il discernimento.

Direi che già questi tre riferimenti magisteriali possono aiutarci a riportare la santità nella sua giusta dimensione.

Sono santi solo coloro che vengono riconosciuti tali dalla Chiesa? Oppure la Chiesa crede che esistano o siano esistiti anche santi non riconosciuti ufficialmente (magari perché nel corso della storia se ne sono perse le tracce)?

No, i santi non sono solo quelli riconosciuti dalla Chiesa, cioè quelli canonizzati, ma sono tutti coloro che hanno realizzato la loro vita, portando a pienezza il dono ricevuto nel Battesimo. Potremmo dire semplicemente che i santi sono tutti coloro che si trovano in Paradiso e che ricordiamo nella bellissima solennità del 1 novembre: la loro schiera è sterminata e lo sappiamo anche dalle splendide visioni del libro dell’Apocalisse di Giovanni. 

Ebbene, in quella schiera noi troviamo sia i santi canonizzati, che la Chiesa vuole mettere davanti a noi come esempio e sostegno nel cammino, sia tutti gli altri — indubbiamente molti di più — che hanno vissuto la santità in modo nascosto, ma che non hanno nulla da invidiare ai primi. 

Se Dante, nella sua visione del Paradiso, immagina una disposizione gerarchica degli angeli e dei santi — con una maggiore o minore prossimità a Dio — nella “platea” della “candida rosa”, lo fa semplicemente per un fine didascalico e ricalcando l’impostazione liturgica; ma lui stesso è convinto che lassù non esistano classifiche o preferenze, perché saremo tutti una cosa sola nel mistero di Dio.

Il Papa, nell’Esortazione apostolica che ho citato prima, chiama queste figure “nascoste” come i “santi della porta accanto” e credo che anche nella nostra esistenza abbiamo conosciuto persone speciali le quali, nella loro semplicità esterna, ci hanno trasmesso il Signore che abitava in loro. 

Indubbiamente, nella storia ci sono state figure grandiose, che non sono state canonizzate dalla Chiesa o perché nessuno ci ha pensato o perché non c’erano documenti sufficienti a provare il loro cammino umano e spirituale. Capita spesso, invece, che ci siano persone del passato, le quali improvvisamente attirano l’attenzione e, valutata l’attualità del loro messaggio, si procede ad aprirne la Causa che, per mancanza di testimoni oculari, viene detta “storica”.

Per concludere, direi che un aspetto indubbiamente bello e sorprendente della santità è che non ha tempo, perché, quando si vive per il Signore e nel Signore, la testimonianza che si lascia può essere di conforto e sostegno in ogni tempo e in ogni luogo.

 

© Dialoghi Carmelitani, ANNO 24, NUMERO 2, Giugno 2023

 

Padre-Marco-Chiesa-ocdP. Marco Chiesa, nato a Crema nel 1976, Carmelitano Scalzo della Provincia Ligure, religioso dal 1996 e sacerdote dal 2002, ha compiuto i suoi studi di Liturgia presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo a Roma; è stato Vicerettore del Seminario minore carmelitano di Arenzano, Priore del Monastero di Santa Croce a Bocca di Magra, direttore della rivista “Messaggero di Gesù Bambino” di Arenzano e docente presso vari istituti Teologici. Attualmente si trova a Roma come Postulatore Generale dei Carmelitani Scalzi.