Il declino demografico dell’Italia

(di Eugenio Brentari)

 

Nei primi giorni di luglio, l’Istat ha presentato, tramite il suo nuovo Presidente Gian Carlo Blangiardo, l’annuale bilancio demografico nazionale. Dalla relazione emerge che per il quarto anno consecutivo la popolazione residente in Italia è in diminuzione, configurando per la prima volta negli ultimi 90 anni una fase di declino demografico.

 

 

Bilancio negativo

Al 31 dicembre 2018, in Italia, la popolazione ammontava a 60.359.546 residenti, oltre 124 mila in meno rispetto all’anno precedente (-0,2%). 

Si tratta del quarto anno consecutivo di diminuzione: dal 2015 sono oltre 400 mila i residenti in meno, un ammontare superiore agli abitanti del settimo comune più popoloso d’Italia.

Il calo è interamente attribuibile alla popolazione italiana, che scende al 31 dicembre 2018 a 55 milioni 104 mila unità, 235 mila in meno rispetto all’anno precedente (-0,4%). Rispetto alla stessa data del 2014 la perdita di cittadini italiani (residenti in Italia) è pari alla scomparsa di una città grande come Palermo (-677 mila). Se si considera, inoltre, che negli ultimi quattro anni i nuovi cittadini per acquisizione della cittadinanza sono stati oltre 638 mila, senza questo apporto, il calo degli italiani sarebbe stato intorno a 1 milione e 300 mila unità.

Antonio Golini nel suo recente volume Italiani poca gente: Il Paese ai tempi del malessere demografico (scritto in collaborazione con Marco Valerio Lo Prete e prefazione di Piero Angela, Luiss University Press, 2019) ricordava come, nell’edizione 2017 di StatisticAll – Festival della Statistica e della Demografia, alcuni accademici si fossero “spinti a prevedere che l’Italia, in assenza di shock esterni o di misure a sostegno della natalità, fra 100 anni sarà abitata da appena 16 milioni di persone, quasi un quarto dei 60 milioni di oggi”.

Record negativo per le nascite: il livello più basso dall’Unità d’Italia

Ad aggravare questa già preoccupante situazione, continua il calo delle nascite in atto dal 2008. Se già dal 2015 il numero di nascite era sceso sotto il mezzo milione, nel 2018 si registra un nuovo record negativo: sono stati iscritti in anagrafe per nascita solo 439.747 bambini, il minimo storico dall’Unità d’Italia.

La diminuzione delle nascite nel nostro Paese si deve principalmente a fattori strutturali. Vi è, infatti, una progressiva riduzione delle potenziali madri. Riduzione dovuta, da un lato, all’uscita dall’età riproduttiva delle generazioni molto numerose nate all’epoca del baby-boom, dall’altro, all’ingresso di contingenti sempre meno numerosi di donne in età fertile a causa della prolungata diminuzione delle nascite osservata a partire dalla metà degli anni Settanta.

Tra le cause del calo anche la diminuzione dei flussi femminili in entrata nel nostro Paese e il progressivo invecchiamento della popolazione straniera.

Più decessi che nascite

La popolazione italiana ha da tempo perso la sua capacità di crescita per effetto della dinamica naturale, quella dovuta alla “sostituzione” di chi muore con chi nasce. Nel corso del 2018 la differenza tra nati e morti (saldo naturale) è negativa e pari a -193 mila unità. Il saldo naturale della popolazione complessiva è negativo ovunque, tranne che nella provincia autonoma di Bolzano. 

Il deficit di nascite rispetto ai decessi si riscontra esclusivamente nella popolazione di cittadinanza italiana (-251 mila). Per la popolazione straniera il saldo naturale è ampiamente positivo, conseguenza della più alta natalità, rispetto agli italiani, e della bassissima mortalità in ragione del giovane profilo per età di questa popolazione.

I decessi si assestano sulle 633 mila unità in linea con il trend di aumento registrato a partire dal 2012, ma in calo rispetto al 2017 (-15 mila). In una popolazione che invecchia è naturale attendersi un aumento tendenziale del numero dei decessi. Le oscillazioni che si verificano di anno in anno sono spesso di natura congiunturale. Le condizioni climatiche (particolarmente avverse o favorevoli) e le maggiori o minori virulenze delle epidemie influenzali stagionali, ad esempio, possono influire sull’andamento del fenomeno.

Il Rapporto annuale dell’Istat sottolineava come “dalla capacità del nostro sistema socio-sanitario di proteggere gli individui più fragili dalle condizioni di rischio congiunturali e ambientali, con azioni di prevenzione e di cura mirate dipenderà, in buona parte, l’evoluzione futura altalenante o meno dei decessi”.

Circa 50 nazionalità: Italia Paese multietnico

Al 31 dicembre 2018 i cittadini stranieri iscritti in anagrafe erano 5.255.503 (+2,2% rispetto al 2017) arrivando a costituire l’8,7% del totale della popolazione residente. La popolazione straniera risiede prevalentemente nel Nord e nel Centro, dove si registra un’incidenza sul totale dei residenti superiore al 10%. Il numero di cittadini stranieri che lasciano il nostro Paese è in lieve flessione (-0,8%) mentre è in aumento l’emigrazione di cittadini italiani (+1,9%).

Nel 2017 sono circa 33 mila gli emigrati italiani all’estero di origine straniera (+18% rispetto al 2016). Si tratta prevalentemente di cittadini di origine straniera che emigrano in un Paese terzo o fanno rientro nel Paese d’origine dopo aver trascorso un periodo in Italia e aver acquisito la cittadinanza italiana. A questi si sommano anche i figli, nati in Italia, dei nuovi cittadini italiani che emigrano con il nucleo familiare. 

La presenza di quasi 50 nazionalità differenti con almeno 10 mila residenti evidenzia il quadro ormai multietnico del nostro Paese. Al 31 dicembre 2018 le differenti cittadinanze presenti in Italia erano 196. Le cinque più numerose sono quella romena (1 milione 207 mila), albanese (441 mila), marocchina (423 mila), cinese (300 mila) e ucraina (239 mila), che da sole rappresentano quasi il 50% del totale degli stranieri residenti.

Che fare?

Qualcuno malignamente potrebbe pensare: “così staremo più larghi”. In realtà il progressivo invecchiamento della popolazione costringerà i più giovani a lavorare di più, più a lungo e con forme economiche di pensionamento sempre più misere. La crisi demografica non è conseguenza di quella economica – nei Paesi più poveri la natalità è più elevata – ma è piuttosto necessario un cambio culturale sul concetto di famiglia, autentica fonte di positività.

Alessandro Rosina, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, sempre in occasione del Festival della Statistica e della Demografia, precisava che la soluzione a questa crisi demografica “sta in progetti di lungo termine; la politica cerca invece risultati e consenso a breve, al massimo tra una consultazione elettorale e la successiva.” Solo un’attenta programmazione di lungo periodo può modificare sostanzialmente il contesto attuale. Ma, continuava Rosina, “un ruolo spetta tuttavia anche alle famiglie. L’errore principale che può fare una comunità è indurre le nuove generazioni ad adattarsi al mondo di oggi, a quello che il presente offre. Vanno, al contrario, incoraggiate a mantenere alta l’ambizione di cambiare la realtà per costruire un futuro più in sintonia con i propri desideri e potenzialità. È questo il ruolo che devono avere le generazioni più mature, ponendosi in modo gener-attivo verso i giovani, non solo attraverso la protezione dei genitori verso i figli”.

Quindi, anche nel nostro piccolo, abbiamo la possibilità e il compito di cambiare le cose.

 

(Eugenio Brentari è Ordinario di statistica all’Università di Brescia, Dipartimento di Economia e Management)

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 20, NUMERO 3, Settembre 2019