La Chiesa proclama Beato il magistrato siciliano Rosario Livatino ucciso in odio alla fede

(di Michelangelo Nasca)

Recentemente, Papa Francesco ha autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il decreto riguardante il martirio del Servo di Dio Rosario Angelo Livatino, il giovane magistrato siciliano ucciso, in odio alla fede, il 21 settembre 1990.

 

Giudice Rosario LivatinoNato il 3 ottobre 1952 a Canicattì — un Comune siciliano di quasi quarantamila abitanti, al confine fra le province di Agrigento e Caltanissetta —, Rosario Livatino rappresenta un importante punto d’incontro tra l’esperienza di vita cristiana e la professione del magistrato, con i tratti caratteristici della coerenza evangelica che nella vita di Livatino fuoriescono limpidi come da una sorgente. Nell’aula di un tribunale o nella vita di tutti i giorni, per Livatino non faceva alcuna differenza: comprendeva, infatti, che le due realtà non potevano non incrociarsi — come lui stesso annoterà nelle sue agendine — Sub tutela Dei, sotto lo sguardo di Dio! Terminati brillantemente gli studi universitari a Palermo, Rosario consegue la laurea in Giurisprudenza nel 1975, e successivamente quella in Scienze Politiche; nel 1979 — per un decennio — il giovane giudice lavorerà come sostituto procuratore della Repubblica al Palazzo di Giustizia di Agrigento, diventando — nonostante la giovane età e la gravità di alcune inchieste — un punto fermo per tutta la Procura. Nell’agosto del 1989 viene nominato giudice a latere del Tribunale di Agrigento.

Il ricordo del compagno di liceo

Per comprendere meglio l’indole umana, spirituale e professionale del giudice Rosario Livatino bisogna rileggere e raccontare alcuni episodi della sua vita, testimoniati da coloro i quali hanno avuto il privilegio di conoscerlo. 

I ricordi sono davvero tanti — riferisce il compagno di liceo, Giuseppe Palilla, recentemente intervistato per Acistampa — «in classe, spesso, Rosario rinunciava alla ricreazione per spiegarci Dante o Manzoni. In preparazione agli esami di maturità andavamo a casa di mia nonna e ci mettevamo sul balcone a studiare, mentre dalle altre abitazioni vicine sentivamo provenire il suono della radio che accompagnava il lavoro delle massaie. Ma quando Rosario iniziava a spiegarci l’Italiano, la Filosofia o la Fisica, improvvisamente le radio venivano spente! Rosario aveva rispetto per tutti, non ricordo mai di avergli sentito dire una sola parolaccia, anzi ci rimproverava quando qualcuno di noi usava un linguaggio inappropriato. Terminati gli anni del liceo, almeno una volta l’anno, ci incontravamo con tutti i compagni di classe, e insieme a Rosario andavamo a pranzo o a cena per ricordare i momenti lieti vissuti al liceo e per rafforzare la nostra amicizia. Una volta lo incontrai in Tribunale, era in compagnia di altri magistrati e avvocati, e io, con un po’ di imbarazzo, lo salutai: “Buon giorno signor Giudice”. Rosario mi si avvicinò dicendomi affettuosamente: “Ricordati che io sono sempre Rosario”!».

Rettitudine e integrità morale

La rettitudine di Livatino nell’amministrare la Giustizia non veniva mai meno; tutti sapevano bene che con il giovane magistrato non erano possibili deroghe o ammiccamenti di favore: posso aiutarti fino a qui — diceva qualcuno — poi, però, sappi che c’è Livatino! 

Persino al suo ex docente di Religione, che si era rivolto a lui per una segnalazione, Rosario Livatino, con cordiale saggezza, rispose: «Ma lei, Padre, quando confessa accetta raccomandazioni?».

La rettitudine del magistrato siciliano era notoriamente evidente, e non mancano episodi che ne hanno registrato la personale integrità e serietà morale, come quella volta che — racconta Roberto Mistretta nel suo libro, Rosario Livatino. L’uomo, il giudice, il credente, Ed. Paoline, 2015 — il giorno dopo Ferragosto, recandosi personalmente al carcere Petrusa di Agrigento, il giovane giudice notificò l’ordine di remissione in libertà di un detenuto, suscitando la sorpresa dei presenti. «Signor giudice — esclamò, infatti, un agente di polizia penitenziaria — poteva aspettare lunedì!». Livatino, con estrema semplicità rispose: «Questa persona ha pagato il suo debito con la giustizia e ha diritto alla sua libertà». 

Livatino non cercava consensi, tenendo a rigorosa distanza tutto ciò che potesse esporlo alle luci della ribalta. 

Il custode dell’obitorio, dopo la  sua uccisione, ricordava in lacrime tutte le volte che lo aveva visto fermarsi in preghiera davanti ai cadaveri di alcuni fuorilegge di cui si era occupato in qualità di procuratore al Tribunale di Agrigento. Un gesto di pietas cristiana che Livatino viveva con semplicità e robustezza di fede, e che, nel ricordo del custode dell’obitorio, diventa un’importante testimonianza di completa adesione al Vangelo.

Altri ricordavano l’umanità che palesò, in modo particolare, davanti alla salma di un malavitoso, redarguendo l’agente presente per una esternazione infelice pronunciata ad alta voce, dicendo: «Di fronte alla morte chi crede prega, chi non crede tace!».

Un crocifisso, il Vangelo e tanta preghiera

«Nella vita di questo giovane magistrato, la fede non rappresenta un aspetto marginale, una cravatta elegante da indossare negli incontri ufficiali in doveroso ossequio alla diplomazia e all’apparenza. Per Rosario Livatino, la vita di Cristo e il Suo Vangelo sono il vertice dell’esistenza umana, e non è certamente un caso che sul suo tavolo da lavoro si trovassero un Crocifisso e il Vangelo, con le sottolineature e gli appunti di uno che prendeva quotidianamente sul serio quelle pagine sacre. “La Bibbia — scrive in classe nei primi anni di liceo — è lo scrigno dove è racchiuso il gioiello più prezioso che esista: la Parola di Dio. Un gioiello che non si consuma mai (Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno) e che non è futile ornamento, ma un meraviglioso e saggio maestro di vita, di vita spirituale e materiale che in esso si fondono a indicare all’uomo una via, una via piena di luce a cui si giunge attraverso tante strade secondarie, tanti viottoli nascosti e segreti. Leggendola e comprendendola, l’uomo ne riceve i migliori consigli perché la sua vita spirituale si svolga serena e senza compromessi, e chi ha spirito pacato affronta la vita con un coraggio e un’abnegazione tali che ogni ostacolo viene eliminato. Quindi insegnamenti in campo spirituale che comportano inevitabili, ma benefiche ripercussioni nel campo materiale, pratico”. 

Ed è proprio in questo ambito, materiale e pratico, vissuto al lavoro, in famiglia e in rapporto con gli altri, che Livatino fa esperienza di Dio. Ogni giorno — prima di raggiungere il Tribunale di Agrigento — Rosario si recava nella vicina chiesa di San Giuseppe per sostare in preghiera: “Non sapevo chi fosse — riferirà poi il parroco don Giuseppe Di Marco — avevo solo capito che era un magistrato. Rimaneva per un po’ e poi se ne andava in silenzio”; e ancora: “Quella figura mi è rimasta impressa come in un quadro di permanente visione. Volgeva dolcemente lo sguardo verso il Tabernacolo, assorto, sereno e quasi luminoso in viso. Dopo alcuni minuti, senza guardare intorno, delicatamente e rapido usciva… Pur avendo il desiderio di rivolgergli la parola o un saluto, non osai mai fargli un cenno. Il suo atteggiamento mi invitava a rispettare la sua preghiera e a cogliere la sua testimonianza di raccoglimento e di silenzio orante”. 

Un appuntamento con la preghiera che Livatino rispettava già durante gli anni del liceo, e che uno dei suoi compagni più cari, Antonio Emmanuele, non mancherà di ricordare: “Esiste anche un bisogno di interiorità — gli diceva Rosario — che spesso ha il sopravvento sulle manifestazioni esterne. È per questo che ogni mattina, andando a scuola, entrava nella chiesa di San Diego per inginocchiarsi davanti all’altare maggiore per qualche minuto e recitare una preghiera di ringraziamento per la vita che ogni giorno il buon Dio ci regalava; è per questo che spesso andava nel convento dei frati Cappuccini a partecipare alla Santa Messa e, dopo qualche tempo, anch’io insieme a lui presi queste abitudini”.» (Michelangelo Nasca, Rosario Livatino. Sotto lo sguardo di Dio, ed. Messaggero, 2020).

Il drammatico agguato e l’omicidio

«Il 21 settembre 1990 la giovane vita di Rosario Livatino si interrompe drammaticamente. Di buon mattino inizia a percorrere in automobile la strada statale 640 Caltanissetta–Agrigento. Ad attenderlo ad Agrigento, in qualità di giudice a latere, un’udienza difficile che potrebbe condannare al soggiorno obbligato alcuni mafiosi. […] Livatino — che nel mese di ottobre avrebbe compiuto trentotto anni — viaggiava senza scorta. Peraltro, quando qualcuno gli faceva osservare l’utilità di tutelare la sua incolumità personale, Rosario rispondeva: “Non voglio che altri padri di famiglia debbano pagare per causa mia”. Luigi Gallo, amico del magistrato, a tal proposito racconta: “Il timore che potessi essere coinvolto nella tragedia, che prevedeva, lo spinse, nell’estate del 1990, a non darmi più passaggi  in macchina, quando mi recavo ad Agrigento. Vieni con la tua auto, mi disse, non vorrei che, se mi succedesse qualcosa, tu ci andassi di mezzo”. Del resto, il senno di poi, ci permette di affermare, e con certezza, che a “tutelare” il giudice Livatino c’era qualcun Altro!

La Ford Fiesta amaranto di Rosario Livatino viene affiancata da una Fiat Uno, e una scarica di fucile caricato a lupara colpisce l’automobile del magistrato, mentre da una moto provengono altri colpi di pistola. Rosario riesce ad uscire dalla sua auto e tenta di rifugiarsi nel vallone sottostante il viadotto scavalcando il guardrail. I killer gli corrono dietro per azzannare vigliaccamente la loro preda. “Cosa vi ho fatto, picciotti?”, grida Livatino, con la semplicità e il garbo che non vengono meno anche di fronte alla ferocia di un criminale. “Tieni, pezzo di merda!”, risponde sprezzante l’assassino, che spara in bocca e alla tempia del giovane magistrato.

Tra i primi a giungere sul luogo dell’omicidio, il giudice Paolo Borsellino, che — il giorno dopo — sfogandosi dirà: “Ne ho visti tanti di colleghi e amici uccisi, ma questo delitto mi ha sconvolto. Cerco di immaginare la ferocia degli assassini, il terrore del giovane collega che fugge, disperato, dopo aver visto in faccia i suoi carnefici. Adesso aspettiamo i prossimi morti, il prossimo della lista…”.

Gli ultimi istanti della vita di Rosario Livatino sono stati raccontati da un testimone milanese, Pietro Ivano Nava, che — dopo aver forato una delle ruote della sua automobile, e percorrendo lentamente la strada statale 640, in quel drammatico 21 settembre — riconoscerà gli esecutori materiali dell’omicidio Livatino e collaborerà (a prezzo di una nuova identità e del cambiamento radicale della sua vita) con le forze dell’ordine e gli investigatori per rintracciare e condannare i responsabili dell’omicidio.» (Michelangelo Nasca, Rosario Livatino. Sotto lo sguardo di Dio, ed. Messaggero, 2020).

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 22, NUMERO 2, Aprile 2021