
Che cos’è la giustizia? Che cosa pensiamo quando usiamo la parola giusto e ingiusto?
Sin da piccoli tutti i bambini sentono che dentro di sé esiste un’idea ed un senso di giustizia e, se qualcosa accade che sembra non essere corretto o rispettoso, si fanno sentire e, alzando la voce, si lamentano: «Non è giusto!».
Questa storia, che narra di Rosario, per tutti Saro, nato e cresciuto in Sicilia, ci aiuta a pensare e riflettere sulla giustizia, per la quale – scopriremo – è possibile impegnare tutta la vita. Saro era un bambino come tanti altri che, però, da subito si mostrò interessato a capire che cosa fosse “il giusto” e soprattutto come mai essere giusti fosse più difficile del previsto.
Spesso trascorreva del tempo con il nonno, che era stato il sindaco della città e che, proprio per questo, aveva dovuto affrontare tante situazioni in cui decidere per la cosa più giusta non era semplice. Soprattutto gli raccontava gli episodi in cui alcune persone prepotenti e più forti maltrattavano e si approfittavano di altre più deboli, che spesso erano costrette a subire. Forse furono proprio le storie del nonno, che ascoltava con gli occhi sgranati, ad ispirare nel piccolo Rosario il desiderio di poter, da grande, difendere i più bisognosi e i più indifesi. Iniziò a sognare di poter fare il giudice ed aiutare gli altri nella lotta contro l’ingiustizia.
Saro trascorse la sua infanzia a Canicattì, una piccola città in provincia di Agrigento, lontana dal mare. Era un bambino tranquillo, curioso e amante dei libri. Ogni volta che aveva un momento libero affondava la testa tra le pagine di fiabe ed avventure e ritrovava sempre un personaggio che, da eroe, difendeva chi era più debole, capace di sacrificare la propria vita, rischiando anche di perderla. Capiva che nel mondo c’è il male, che talvolta si presenta con un volto terribile, ma esiste anche la possibilità di contrastarlo e combatterlo, anche se questo poteva richiedere impegno, fatica e anche qualche sofferenza.
Nel 1964 Saro ricevette il Sacramento della Comunione e lui ricordò per tutta la vita quel momento emozionante e importante perché – raccontava – aveva sentito, per la prima volta, in modo chiaro la presenza di Dio che lo proteggeva. Per tutta la sua esistenza sarà accompagnato da un motto in latino, che era solito scrivere vicino alla sua firma: STD, sub tutela Dei. Sotto la protezione di Dio. Per questo ogni giorno entrava in Chiesa, anche per pochi istanti, per ringraziare Dio dei doni che aveva ricevuto da lui.
A scuola Rosario fu uno studente sempre interessato, amava molte materie, otteneva ottimi risultati, era aperto con tutti e pronto a buttarsi totalmente nel gioco come faceva nello studio. I suoi compagni lo ricordano ancor oggi come un bambino e ragazzo generoso, pronto ad aiutare chiunque, soprattutto chi era un po’ in difficoltà a scuola in matematica o nello studio della storia che era la sua disciplina preferita. Spesso invitava i suoi compagni a casa per poterli aiutare e per giocare insieme a loro.
Così trascorse serena la sua giovinezza fino a quando, finito il liceo decise di iscriversi all’Università, per iniziare a realizzare il suo sogno. In poco tempo diventò prima avvocato e poi iniziò la sua strada per divenire magistrato e giudice. Studiò e lavorò tantissimo, senza mai perdere di vista il suo obiettivo: potersi, un giorno, mettere al servizio degli altri per difendere e diffondere la Giustizia.
Finalmente nel 1978, in un caldissimo luglio, si recò al Tribunale di Agrigento e fece il giuramento, con il quale divenne giudice. Nel suo diario annotò il ricordo commovente di quel momento e chiese a Dio di accompagnarlo e di aiutarlo a rispettare il giuramento ed a comportarsi nel modo più corretto: STD, sotto la protezione di Dio, come, da quel momento in poi, scrisse in tutti i documenti che dovette firmare come giudice. Il suo intento era di giudicare “con carità”, senza sminuire la giustizia.
Era uno dei più giovani magistrati in Italia, per questo ancor oggi è conosciuto come il “giudice ragazzino”. Subito si mise al lavoro e come sapeva fare lui: senza risparmiarsi, dedicandosi giorno e notte a questo lavoro che lo appassionava, con forte determinazione e inesauribile energia, tanto che i suoi colleghi e le persone che collaboravano con lui erano sbalordite e si chiedevano come facesse a portare a termine così tanto lavoro.
Il mestiere del magistrato e del giudice era però un compito pericoloso e soprattutto in quel periodo nella provincia di Agrigento, dove vi era una nuova organizzazione di criminali detta “Stidda”. Gli stiddari erano disposti a tutto: rubavano, minacciavano, uccidevano chiunque si mettesse contro di loro e i loro affari. Andavano fermati e il giudice Rosario Livatino, il nostro Saro, in poco tempo con il suo enorme impegno divenne il loro principale nemico. Essendo la situazione molto pericolosa e minacciosa, al giudice Livatino venne proposta una scorta armata che lo accompagnasse, ma lui, pur capendo che era divenuto un bersaglio di questi criminali e della loro violenza, la rifiutò.
Nonostante alcune minacce, Saro continuò con responsabilità a svolgere il suo dovere per la giustizia e la legalità. Sapeva che la protezione più importante è quella a cui ogni mattina si affidava, quando entrava, molto presto, nella chiesa di S. Giuseppe ad Agrigento, prima di recarsi in tribunale: era certo che in Dio c’era tutta la forza che gli serviva.
Ormai in tutta la Sicilia e in Italia si parlava di questo giovane giudice, molto abile e capace nel contrastare l’associazione mafiosa criminale. Rosario mostrò sempre grande rispetto per le persone, anche se erano dei ladri o degli assassini, arrestandoli perché pagassero il loro debito con la giustizia, ma pregando spesso anche per loro.
Si racconta che un ferragosto, mentre era in vacanza, venne a sapere che un carcerato stava aspettando la sua firma per poter tornare, dopo molti anni, in libertà, uscendo dal carcere. Subito lasciò il posto dove era, per andare a firmare i documenti per la sua scarcerazione, dicendo ai suoi collaboratori che quell’uomo aveva scontato la sua pena con la giustizia e che non doveva restare neppure un’ora in più in prigione.
Il 21 settembre 1990 era una giornata molto calda già di prima mattina. Rosario salutò con un bacio la mamma e salì sulla sua auto per andare ad Agrigento. All’improvviso venne affiancato e fermato da quattro giovani che gli tagliarono la strada. Saro scese e chiese loro: «Che cosa vi ho fatto?». Erano dei sicari mandati per ucciderlo. E così, mentre i suoi occhi si fissavano nel loro sguardo, gli spararono, uccidendolo. Il giovane giudice, innamorato della Giustizia, morì su quella strada in mezzo alla campagna, sicuro di aver sempre fatto la cosa giusta e di aver amato il prossimo come Gesù insegna nel Vangelo.
Pareva tutto finito, ma poco tempo dopo il Santo Padre Giovanni Paolo II in visita in Sicilia venne a conoscere la storia di Rosario Livatino ed incontrò i genitori di Saro. Riconoscendo in lui un vero martire della Giustizia, diede inizio al percorso che lo ha proclamato Santo. E nel frattempo la sua storia ed il suo esempio hanno spinto due degli assassini, che sono ancora in carcere, a chiedere perdono e a riavvicinarsi a Dio, invocando la Sua protezione e quella di S. Rosario Livatino, per tutti Saro.
Illustrazioni Cristina Pietta – Testi Luca Sighel
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 23, NUMERO 2, Giugno 2022