Intervista al Prof. Alessio Musio (a cura della Redazione)
«Non esiste un diritto di morire e non si può celebrare come una vittoria il suicidio»

Il pronunciamento della Corte Costituzionale – o meglio il Comunicato stampa della Corte del 25 settembre 2019 – che ha introdotto, sotto certe condizioni la non punibilità dell’aiuto a suicidarsi, ha suscitato un grandissimo clamore a livello mediatico. Del resto, il cambiamento è importante…
Mi faccia subito dire che quel comunicato e quella decisione hanno di fatto legittimato il suicidio assistito. Quello che mi ha colpito è stata la reazione nell’opinione pubblica. La stragrande maggioranza dei media e delle persone che venivano intervistate, o che prendevano la parola sui social, infatti, celebrava l’avvenimento nei termini di una vittoria di civiltà come se si fosse trattato di un trionfo alle elezioni del partito politico nel quale ci si riconosce o di un evento sportivo: vissuti e sentimenti che esprimono in realtà dinamiche di vita, di affermazione della vita e della bellezza del vivere. Rappresentare in questi termini l’autorizzazione di Stato a darsi la morte delinea, quindi, qualcosa di sconvolgente, nel senso che in questo modo viene completamente saltato e rimosso l’oggetto vero di cui si stava dibattendo e che si stava celebrando: il suicidio, vale a dire – e lo dico con il massimo rispetto possibile – la forma estrema della disperazione umana. In fondo, in quei giorni si è celebrata un’idea di morte, di angoscia senza soluzione, cioè la forma più radicale di afflizione che si possa immaginare. Insomma, a mio giudizio, si è perso completamente di vista il significato reale di ciò che era oggetto di pronunciamento da parte della Corte Costituzionale. Pensando a tutto questo, mi è tornato in mente uno dei passi più sconvolgenti di Pascal, quando scriveva che persino “colui che va a impiccarsi desidera essere felice”. Nella sua capacità di comprendere le dinamiche di fondo dell’esperienza umana, Pascal era riuscito a cogliere come il suicida non stia davvero desiderando la morte, ma semplicemente l’uscita da una condizione di vita che ritiene intollerabile. Come a dire che persino nel suicidio, correttamente inteso, c’è una domanda, per quanto disperata, di vita, di salvezza, e non di morte o di annullamento. Ecco, di questa drammaticità nel dibattito che è seguito al pronunciamento della Corte non si è avuta alcuna traccia, ma solo un’ossessionante e ossessiva celebrazione della morte, intesa in fondo proprio come fine, annullamento: qualcosa di spettrale.
Entriamo allora nel contenuto del pronunciamento. Il nodo teorico che emerge riguarda la questione del c.d. “diritto di morire”. E allora la domanda diventa: esiste un diritto di morire? Uno Stato democratico può accogliere al suo interno una figura giuridica di questo tipo?
La domanda è chiara e altrettanto deve essere la risposta. Occorre osservare che la nozione stessa di “diritto di morire”, come è stato spiegato, è un ossimoro, cioè un’espressione composta da due termini che si elidono reciprocamente: diritto e morte. Questo perchè la condizione di ogni diritto è la vita. Intendiamoci: l’esistenza non è il valore più importante, ma è il valore basilare, nel senso che ogni altro diritto implica la vita come sua condizione di possibilità. Per fare degli esempi: non ci può essere il diritto allo studio e al lavoro se non esiste prima di tutto la condizione dell’essere in vita. Evocare la figura del diritto a morire significa, dunque, mettere in campo qualcosa di contraddittorio, di insensato. Per venire alla seconda domanda, mi faccia dire che a questo proposito bisogna argomentare prima di tutto in termini metodologicamente laici, e quindi osservare che uno Stato democratico non può permettersi di indicare in nessuna situazione esistenziale una condizione per cui non valga più la pena vivere così che si sarebbe autorizzati (e aiutati) a eliminarsi. Lo Stato deve avere la concezione più alta possibile della dignità umana; quindi, mentre occorre sapere che esistono condizioni che non sono all’altezza della dignità umana e che per questo motivo bisogna fare tutti gli sforzi per cercare di cambiarle, occorre ribadire l’idea che l’esistenza dell’uomo, per il fatto stesso di essere umana, è sempre degna. Uno Stato democratico non può dire che ci sono condizioni in cui questa dignità viene meno, pena il perdere esattamente ciò che lo qualifica come democratico, cioè la massima apertura possibile a tutte le condizioni esistenziali in cui gli uomini, indipendentemente dalla loro volontà, possono trovarsi a vivere.
Qual è, allora, il giudizio sulla presa di posizione da parte della Corte?
Vorrei cominciare a rispondere richiamando una citazione, secondo cui “il diritto di una generazione diventa immediatamente la morale della successiva”. Il portato drammatico del pronunciamento della Corte, insomma, è la cultura che veicola e che di fatto rischia di diventare mentalità comune per le generazioni successive. Un aspetto certamente problematico riguarda il fatto che una presa di posizione, emanata per rispondere a un fatto concreto, la vicenda di Dj Fabo, in realtà, per come è formulata, non è in grado di riferirsi esattamente alla sua condizione. Questo perché, contrariamente a quanto viene dichiarato, Dj Fabo non era tenuto in vita da un sostegno vitale. Uno degli elementi più negativi di questo pronunciamento riguarda, però, il fatto che reinterpreta la legge sul Consenso informato. La Corte infatti ha “subordinato” – sto citando dal testo del comunicato stampa – “la non punibilità dell’istigazione al suicidio al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul Consenso informato, sulle Cure palliative e sulla Sedazione profonda”. Questo risulta molto grave: di fatto il richiamo alla legge sul Consenso informato ne stravolge retroattivamente il significato e ciò avviene proprio sfruttando appieno, sul piano simbolico, quanto è concesso dall’autorità giuridico-politica della Corte Costituzionale. Mi spiego. La legge del 2017 sul Consenso informato – come dice il titolo – non è una legge che riguardi il suicidio assistito e l’eutanasia, anzi queste finalità sono nel testo esplicitamente escluse. È una legge che si ispira prima di tutto alla tutela del bene della “vita”, in subordine della “salute” e al terzo posto della “libertà”. In questa gerarchia c’è un senso molto preciso. Collegare il suicidio assistito alla legge sul Consenso informato – che di fatto, come detto, esclude esplicitamente finalità suicidarie ed eutanasiche – significa allora reinterpretare e modificare il testo della legge stessa e far valere una sua interpretazione di parte che ne cambia la “lettera”, vale a dire ciò che esplicitamente essa prevede. È un’operazione scorretta già soltanto sul piano formale.
E dal punto di vista propriamente bioetico qual è il problema?
Risponderei dicendo che il profilo di problematicità del Comunicato consiste nel fatto che dà corpo a una confusione radicale tra due fenomeni diversi: il rifiuto dei trattamenti e il suicidio assistito. Le due situazioni sono di fatto e di diritto incomparabili perché – come bene è stato osservato – nel rifiuto dei trattamenti la causa della morte resta la patologia, mentre nel suicidio assistito la causa della morte è l’atto stesso del soggetto che si auto-dà, sia pure aiutato, la morte.
Introdurre questa confusione è molto pericoloso. Facciamo un esempio. Una persona che nelle ultime fasi della sua vita rifiuti un trattamento che gli viene proposto perché ha l’ultima occasione di visitare un posto che non ha mai visto, o perché vuole passare gli ultimi giorni della sua esistenza in pace con il Signore in un convento a pregare, non ha alcuna finalità suicidaria. Il pronunciamento della Corte, invece, fa sì che ogni rifiuto dei trattamenti – cioè ogni decisione del paziente su come vivere gli ultimi giorni della sua vita – qualora sia in forma negativa venga a configurarsi in termini suicidari, il che è una violenza rispetto al vissuto delle persone e alla verità dei fatti.
Il pronunciamento di un anno fa della Corte Costituzionale (rif. alla legge 207/2018) lasciava presagire questo tipo di conclusione?
La risposta a questa domanda è complessa. Stando alla prima parte del testo si dovrebbe dire di no, mentre la seconda in qualche modo lasciava aperto questo tipo di soluzione. Ma ciò significa che quel documento – di cui non si è parlato a sufficienza – contiene in se stesso qualcosa di contraddittorio. In tutta la prima parte, infatti, il pronunciamento del 2018, molto ben argomentato, ritiene esplicitamente non sostenibile la tesi di chi immagina che l’istigazione al suicidio sia incompatibile con la nostra Costituzione. La Corte riconosce “la condizione di vulnerabilità” della persona che tenta di suicidarsi e rivendica per questo la necessità di creare intorno a lei una “cintura protettiva”. Inoltre, si spiega che se in origine il reato di istigazione al suicidio era basato sulla centralità dello Stato (che considerava la vita dei suoi cittadini come un proprio bene), oggi, invece, la fonte di validità di questo reato ha un’altra giustificazione. Il riferimento va infatti alla “centralità della persona umana come valore in se stesso e non come un semplice mezzo per il soddisfacimento di interessi collettivi”. Inoltre nel testo si riconosce la necessità di fare in modo che coloro che attraversano difficoltà e sofferenze non “subiscano interferenze” di ogni genere che le portino a sentirsi di peso. Sono parole giuste e importanti, in cui il riconoscimento della centralità della persona umana determina la necessità di escludere la fattispecie dell’incitamento al suicidio, interpretata effettivamente come qualcosa di negativo e di grave. Per riprendere una bruciante osservazione fatta dal prof. Adriano Pessina (l’articolo, insieme agli altri sul tema, si può leggere sul sito di ‘Cattolicanews’), nessuno può immaginare di configurare, ad esempio, un reato di incitamento all’onestà proprio perché l’onestà è qualcosa di positivo. Quindi, stando alla prima parte, il pronunciamento del 2018 risulta davvero incompatibile con quanto è stato dichiarato un anno dopo.
Proprio in quel testo, poi, venivano ricordate le corrette finalità della legge sul Consenso informato di cui parlavamo prima. Ne veniva cioè esplicitamente riconosciuta l’incompatibilità con l’eutanasia e con il suicidio assistito. Il fatto che oggi la Corte Costituzionale, invece, autorizzi di fatto il suicidio assistito sulla base del testo di quella legge, risulta una contraddizione teorica e pratica di cui in qualche modo si addossa la responsabilità. Prima di concludere mi faccia fare un’ultima considerazione. Il Comunicato stampa della Corte Costituzionale rende legittimo il suicidio assistito a fronte delle “verifiche fatte da parte dei Comitati etici delle strutture pubbliche del Servizio Sanitario Nazionale”. Anche questa indicazione risulta criticabile. I Comitati etici si occupano, infatti, della sperimentazione farmacologica, cioè di determinare l’iter attraverso cui un nuovo trattamento può essere proposto per i malati e ai malati come una terapia. Si tratta di procedure estremamente delicate che hanno un profilo scientifico, legale ed etico particolarmente complesso, con una dimensione anche altamente burocratica, in cui la “macchina segretariale” è essenziale nella sua capacità di predisporre il materiale e di determinare tutti i passi necessari per valutare la validità della proposta di un nuovo trattamento. Ritenere che i Comitati etici debbano farsi carico di vagliare la legittimità di un’eventuale richiesta di suicidio assistito è qualcosa di totalmente improprio. Certo, i Comitati etici sono chiamati anche a offrire consulenza etica, ma basta farne parte per accorgersi di quanto questa parte sia minoritaria. Come membro di un comitato etico trovo assolutamente fuorviante che sia chiesto a questo organismo di pronunciarsi su una dinamica di morte che dipende dalla volontà e non dai limiti della medicina. Qui il riferimento alla consulenza etica non ha alcun senso, perché la richiesta di consulenza può e deve essere relativa solo ai dilemmi inerenti alle prassi cliniche e agli interventi terapeutici ed evidentemente il suicidio assistito non ha nulla a che vedere con questo tipo di dinamica: come l’Organizzazione medica mondiale ha recentemente ribadito, il suicidio assistito non fa parte dei compiti della medicina.
Quindi, in sintesi, si può dire che il pronunciamento della Corte è grave perché introduce di fatto la figura contraddittoria del diritto a morire, riscrivendo a ritroso la legge sul Consenso informato?
In qualche modo sì. E mi preoccupa che i Comitati etici vengano trasformati in una sorta di burocrazia tanatologica che dovrebbe decidere della volontà di morte delle persone. Questa indicazione è inadeguata e ha ragione chi rivendica il fatto che non c’è alcun compito istituzionale del Comitato etico in questo senso.
Professore, nell’attesa che Dialoghi andasse in stampa, è uscito il testo della sentenza. Conferma il giudizio espresso nella nostra intervista?
Confermo, anche se occorrerebbe discutere nel dettaglio i vari passaggi del testo. La sostanza dal punto di vista etico però non cambia.
Per approfondimenti si consiglia la lettura di Adriano Pessina (2007) “Eutanasia: della morte e di altre cose”, Cantagalli
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 20, NUMERO 4, Dicembre 2019