Intervista alla dott.ssa Mariolina Ceriotti Migliarese

(a cura di Meri Polito e Monica Parolini)

Proviamo a guardare una coppia di innamorati. Possiamo dire con il Qoelet: «Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole». Il desiderio di un amore che non finisca mai e la certezza assoluta che quella persona sarà l’unica capace di donarmi la felicità ogni giorno sono stampati sul viso e nel cuore di queste due persone. È così da sempre e così sempre sarà, perché noi uomini siamo stati creati con questo desiderio. Eppure sembra che la nostra società post–moderna abbia facilmente rinnegato questo desiderio sotto la spinta di una sempre maggiore autodeterminazione colpevole spesso di far naufragare una famiglia alla prima scaramuccia e incapace di dare ancora senso e valore alla costruzione — e ricostruzione — della relazione, soprattutto di fronte al dolore e al sacrificio. Per cercare di andare un po’ più a fondo di queste dinamiche così complesse e che spesso ci toccano da vicino, abbiamo posto alcune domande alla dott.ssa Mariolina Ceriotti Migliarese, neuropsichiatra e psicoterapeuta da anni impegnata sul fronte dell’aiuto alle coppie e alle famiglie in difficoltà.

Cara dottoressa, ci può dire cos’è l’amore secondo lei?

Una domanda davvero difficile, per cominciare… Amore è quando ci innamoriamo, amore è quando ricominciamo ogni giorno, amore è quando ci perdoniamo, amore è quando testimoniamo l’uno all’altra il valore insostituibile del nostro essere noi stessi. È sentimento ed è volontà, è istinto ed è progetto, è entusiasmo ed è resistenza. È passione erotica e tenerezza. È camminare insieme per sempre perché proprio tu sei l’altro per me.

Oggi c’è un’idea di amore molto edulcorata e distante dalla realtà, che spesso trova impreparate le giovani famiglie, spingendole a decretare rapidamente il fallimento della relazione. Quali aspetti della relazione andrebbero riscoperti come portatori di valore?

L’idea più comune oggi, non solo riguardo al matrimonio ma anche ad esempio al rapporto tra genitori e figli, è che la buona riuscita di una relazione si misuri dalla sua capacità di evitare i conflitti. L’ideale sono i rapporti a–conflittuali, quelli in cui due persone riescono ad andare d’accordo e a capirsi in modo spontaneo, “naturale”, senza fatica. Ma per capirsi senza confliggere bisogna incontrare qualcuno che ci sia il più possibile simile: la differenza infatti genera conflitto molto più della somiglianza, perché richiede che riconosciamo all’altro delle ragioni pari alle nostre, che diamo spazio alla sua volontà e che ci impegniamo ad apprendere il suo linguaggio, imparando ad apprezzare la grande ricchezza che deriva dalla differenza. In famiglia non è possibile evitare divergenze perché per sua natura è proprio il luogo dove si incontrano le principali differenze dell’umano. Come dice la professoressa Scabini, le differenze di sesso, di generazione e di stirpe si incontrano nella famiglia tutte insieme: la differenza tra il maschile e il femminile, la differenza di età e di sviluppo, le infinite differenze che l’uomo e la donna devono superare nel loro modo di intendere le piccole/grandi cose di ogni giorno, e che dipendono dalle abitudini apprese nelle due famiglie di origine… Tutto questo rende inevitabile il manifestarsi di conflitti, che dunque vanno considerati fisiologici. Casomai il problema sta nell’imparare a gestire la conflittualità mantenendola su livelli accettabili e sempre rispettosi, e nell’essere capaci di ricomporre la situazione in modo costruttivo.

Quale ruolo hanno il “lavoro”, il sacrificio nella costruzione di un amore, soprattutto in un’epoca in cui “fare fatica” è così fuori moda? Quando possiamo definire realisticamente “felice” un matrimonio?

Il fatto è che una certa fatica, un certo grado di sacrificio sono inevitabili per raggiungere qualsiasi obiettivo; anzi: più l’obiettivo è ambizioso o importante, più siamo disposti a fare sacrifici per raggiungerlo. Tutto dipende da cosa riteniamo importante, da cosa riteniamo possa portarci il più vicino possibile alla felicità che tutti cerchiamo. Quante persone ad esempio sacrificano tutto per la propria carriera professionale o fanno diete faticosissime o allenamenti sfinenti per avere un corpo perfetto? Il problema dunque è come mai non siamo disposti a sacrificarci un po’, a fare un po’ di fatica, per costruire l’amore e tenerlo vivo nel tempo. Credo che in parte questo dipenda proprio da un’idea superficiale dell’amore, che sovrapponiamo allo stato di innamoramento e dunque ad una situazione in cui il cuore, la mente, il corpo, si muovono spontaneamente verso l’altro che ci appare capace di darci ciò che cerchiamo. L’innamoramento invece è uno stato di grazia che apre le porte alla possibilità di amare proprio quella persona, di cui in quel momento intuiamo l’unicità per noi. Ma si tratta, appunto, di una possibilità: dobbiamo chiederci se la persona che ha mosso il nostro cuore può essere un buon compagno/a di viaggio per la vita, e dunque se condivide con noi la meta, se può condividere i nostri progetti, se è disposta a promettere il “per sempre”. E da parte nostra domandarci se vogliamo investire in quel viaggio non solo il nostro impegno ma anche la nostra creatività; perché un matrimonio duri per sempre bisogna in primo luogo volerlo davvero, e poi non aspettarci che sia l’altro l’artefice della nostra felicità, perché la felicità è un compito personale ineludibile e dipende dalla nostra capacità di attingere risorse creative in noi stessi, qualunque siano le condizioni esterne che la vita ci presenterà.

Continua a leggere

Dal matrimonio alla famiglia: quando una coppia decide di mettere fine alla propria relazione matrimoniale va in pezzi tutto il mondo, l’orizzonte di senso nel quale i figli sono nati e vissuti. Qual è il suo pensiero in merito?

Davanti ad incomprensioni importanti e all’usura della relazione, è oggi molto difficile anche per i credenti non fare la fantasia di separarsi. Si può stare insieme solo per i figli? Personalmente credo che la risposta sia no: non si può stare formalmente insieme, magari con una pace armata e pesanti silenzi, con l’idea che questo sia per i figli una cosa buona. Ma i figli che abbiamo generato e verso i quali abbiamo una responsabilità non vicariabile sono sempre un motivo molto forte per provare a rimetterci in gioco e a rilanciare la relazione. Per loro infatti, la nostra famiglia è il mondo: mondo fatto di beni concreti come la loro casa, di beni immateriali come le nostre abitudini, e dei beni relazionali costituiti da tutti i rapporti interni ed esterni che la famiglia ha costruito. I figli ci chiedono di mantenere la promessa d’amore con la quale li abbiamo generati, ci chiedono il coraggio di guardarci in faccia e ricominciare. So per esperienza che è molto spesso possibile, magari con l’aiuto di qualcuno: purché lo si voglia davvero, la crisi può sancire la fine di una relazione sofferente e la nascita di una relazione nuova e più vitale con la stessa persona: non si tratta di aggiustare i cocci, ma di fare un salto di qualità, di scoprire insieme opportunità nuove.

“Finché morte non vi separi”: cos’è che fa paura agli innamorati di oggi che preferiscono unioni a termine anziché l’avventura di unioni che abbiano come orizzonte il “per sempre”?

Si tratta di una grave crisi di fiducia: non solo nell’altro e nella fragilità della sua promessa, ma anche in se stessi, nella propria capacità di mantenere vitali gli affetti. I giovani si dicono: come posso promettere che continuerò a provare gli stessi sentimenti che provo ora? Come posso promettere che non mi innamorerò di qualcun altro? Se l’accento è messo solo sulla parte sentimentale della relazione, nessuno di noi può fare promesse. Possiamo promettere fedeltà, aiuto, rispetto; possiamo promettere amore, non perenne stato di innamoramento. Nessuno può garantirci che non proveremo attrazione per qualcun altro/a, che non avremo la tentazione di tradire o di abbandonare… Per questo è necessario aumentare la nostra consapevolezza davanti al matrimonio, ma è anche necessario che veniamo aiutati a intravvedere il bene reale che deriva anche per noi dall’intraprendere con coraggio la strada del “per sempre”. Ricordando anche che il “per sempre” è fatto dal sì che dico oggi; domani penserò al sì che compete a domani. Un giorno alla volta, con pienezza: questo è il “per sempre”.

Il perdono potrebbe essere la “chiave di volta” per la costruzione di relazioni solide, durature e felici pur nella difficoltà e nelle ferite che inevitabilmente la vita riserva?

Perdonare è una competenza umana molto complessa, che richiede il maturare di diverse capacità. È una competenza alta, non ovvia, che va appresa; dunque va anche trasmessa e insegnata, a partire dai nostri bambini. Spontaneamente la creatura umana ferita si sente portata alla vendetta e alla ritorsione; perdonare vuol dire mettersi anche dal punto di vista dell’altro: non per dargli ragione, non per banalizzare l’offesa, non per dimenticare, ma per capire la logica che lo ha portato a quel comportamento che mi ha offeso. C’è sempre una logica interna alle azioni umane, anche a quelle sbagliate: è solo da lì che si può partire. Capire e giustificare non sono la stessa cosa, ma se non capisco non posso perdonare…

Cos’è che autorizza la Chiesa a parlare ancora di amore eterno, fedeltà, misericordia nei rapporti? L’amore così inteso è un privilegio per pochi? Un impegno da eroi o Santi?

Un amore così è soprattutto una sfida. Amare “per sempre” è una sfida alla nostra intelligenza, alla nostra creatività, al nostro carattere. Una sfida ad essere amabili per poter essere amati, a dare fiducia e rispetto per riceverne, a vivere con buonumore e pazienza le cose della vita. Essere belle persone è la sfida centrale dei rapporti d’amore. Ma se i Santi si definiscono per quello che sono davvero, cioè persone pienamente realizzate e felici, non vedo contraddizione: un amore così è una sfida che ha come scopo quello di renderci felici perché pienamente realizzati sul piano umano… e dunque anche per renderci santi.

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 18, NUMERO 1, Aprile 2017

 


Mariolina Ceriotti Migliarese è medico, neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta. Vive a Milano dove lavora in un servizio territoriale di neuropsichiatria infantile ed esercita attività privata come psicoterapeuta per adulti e coppie. Da molti anni si occupa di formazione di genitori e insegnanti attraverso conferenze e articoli su tematiche inerenti la famiglia. Sposata nel 1973, ha sei figli. È autrice per Ares di La famiglia imperfetta (2010), La coppia imperfetta (2012), Cara dottoressa. Risposte alle famiglie imperfette (2013) e Erotica & Materna. Viaggio nell’universo femminile (2015). È coautrice inoltre dei libri, entrambi usciti per Franco Angeli, Il sostegno alla genitorialità (2011) e La preadolescenza (2013).