Il caso della maternità surrogata

(di Alessio Musio)

Quando pensiamo alla tecnologia, l’immagine più immediata è quella dello strumento. Un’immagine in fondo rassicurante perché lo strumento è qualcosa di cui si ha chiaro sin dall’inizio l’uso buono e quello cattivo, con la certezza che scegliendo il primo possiamo tranquillamente evitare il secondo. Ma la tecnologia contemporanea non risponde affatto a questa comprensione: muta la nostra esperienza e con essa il nostro rapporto con la temporalità. La promessa della tecnologia è, infatti, quella che non perderemo tempo, che tutto ciò che lei farà per noi sarà solo ed esclusivamente ciò che avremmo fatto noi, in qualche altro modo, ma molto più lentamente. Essa sa insomma che l’uomo ha sempre bisogno di tempo e in alcuni casi ha anche la tentazione di desiderarne uno diverso da quello che di fatto vive.

Kierkegaard chiamava melanconia questo desiderio, qualificandolo come “il peccato di non volere profondamente e sinceramente” la storia che si è scelta, in cui si è coinvolti e che racchiude la nostra vicenda umana. Nelle sue potenzialità seducenti, la tecnologia sembra fatta apposta per intercettare questi due modi umani di guardare alla temporalità: quello con cui consideriamo il tempo come uno dei beni più preziosi che ci sfugge o manca e quello con cui, invece, ne sentiamo l’oppressione, rischiando, in entrambi i casi, seppur in modo diverso, di non riuscire a vivere il presente.

Il simultaneo

Per comprendere il legame tra tecnologia e temporalità, basta pensare a una delle sue esemplificazioni per noi più consuete: lo smartphone, un’entità che accompagna a tal punto il nostro quotidiano che non ci facciamo nemmeno più caso, se non quando non funziona. Lo smartphone è il trionfo del simultaneo; nello stesso momento possiamo telefonare, consultare indicazioni stradali, o di alberghi, musei e ristoranti, accedere puntualmente ai profili biografici di amici o di sconosciuti o di colleghi, consultare e leggere stralci di libri…

Il tutto concentrato magicamente in uno spazio minuscolo cui si accede con un investimento di tempo e di energie di fatto insignificante. La distanza temporale si trova a essere annullata, l’insieme delle possibilità è potenzialmente sincronico. Ma questo è solo un lato della medaglia.

Non è un caso che i sindacati tedeschi di un’importante azienda qualche tempo fa abbiano cercato di impedire che i dirigenti ricevessero le e-mail dopo una certa ora della sera, per preservare la distinzione tra il tempo del lavoro e quello della vita personale (degli affetti e delle relazioni), e impedire che tutto venga fagocitato in un indistinto che tende a dissolvere l’umano. Come non è un caso che in questa immediata reperibilità e visibilità (non si sa se reale o apparente) data dalla combinazione tra lo smartphone, WhatsApp e i vari Social Network, ciò che viene a mancare sia esattamente il senso di quella discreta opacità di ciascuno rispetto agli altri, che è invece essenziale, come aveva spiegato il filosofo e sociologo Simmel, per preservare soggettività e relazioni.

Le vignette in cui le persone vengono ritratte fisicamente a cena insieme, ma separate dai loro rispettivi telefonini, sono la rappresentazione più efficace di questa dinamica di incomunicabilità tecnologica del simultaneo.

Sin qui abbiamo preso ad esempio qualcosa di assolutamente quotidiano, più che banale, come lo smartphone, ma c’è un esempio che è forse in grado di spiegare la schizofrenia e la contrazione del tempo che la tecnologia rende possibile; ed è il caso della maternità surrogata o, come viene anche detto, in modo mistificatorio, gestazione per altri.

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Il tempo (melanconico) della maternità surrogata

A partire dagli studi sull’allevamento zootecnico, infatti, si è sviluppata una metodica chiamata fecondazione  in vitro il cui “progresso” ha portato alla possibilità di separare la donna da cui provengono gli ovociti da quella in cui avvengono la gestazione e il parto. E siccome si è potuto verificare, scientificamente, che la madre gestante e partoriente, dal punto di vista genetico, non lascia traccia di sé sul bambino e sul suo aspetto esteriore – che poi è quello che conta nel caso del figlio del desiderio –, questa distinzione in sé tecnica è diventata immediatamente anche economica, dando luogo a due differenti mercati. Quello degli  ovociti, estremamente costoso, che coinvolge in massima parte studentesse bianche dalle caratteristiche fisiche socialmente richieste e apprezzate (giovani donne che hanno trovato in questa pratica negli Stati Uniti un modo di pagarsi i costosissimi studi), e quello delle madri surrogate che possono anche possedere qualità più anonime, nella misura in cui ciò che conta, in fondo, non è neppure il loro corpo, ma solo il loro  utero, il loro sangue e il loro respiro. Si tratta di donne dall’età più avanzata (dai 30 anni in su), che preferibilmente abbiano già avuto figli, perché così assicurano l’esito commerciale del parto e sono meno propense ad affezionarsi al bambino portato in grembo. Dati alla mano, questo secondo mercato sfrutta in modo indegno differenze sociali o di razza, impiegando  negli Stati Uniti donne di colore e su scala globale quelle indiane.

Insomma, la tecnologia non è solo uno strumento, ma un fattore di trasformazione delle nostre esperienze che diventa terreno fertile di un capitalismo sempre pronto a ampliare i suoi mercati, in spregio alle istanze etiche e politiche. E il caso della  maternità surrogata è emblematico per capire il rapporto che la tecnologia ha con la temporalità. Intanto, perché tutti gli attori che sono coinvolti – gli uomini e le donne che mettono a disposizione i gameti  all’origine del processo di fecondazione, e le donne che rendono disponibile il loro grembo per lo sviluppo del figlio del mercato – diventano tutti, allo stesso tempo ma in modo diverso, padri e madri biologici di figli che cercheranno di non concepire intellettualmente come tali.

E in secondo luogo perché – nonostante il richiamo alla generosità, alla dedizione, all’altruismo che accompagna sin dal suo sorgere il dibattito sulla maternità surrogata – non c’è dubbio che questa pratica arrivi a distruggere una distinzione fondamentale della nostra civiltà giuridica, quella che separa, come sopra si diceva, il tempo del lavoro da quello della vita personale. Per chi mette in vendita il proprio grembo per la maternità surrogata, quello della gravidanza è, infatti, un tempo in cui lavoro e vita coincidono in modo assoluto, quando le conquiste sociali avevano fatto in modo che proprio il periodo della gravidanza fosse giuridicamente sottratto al lavoro. Come ha scritto in un suo bel libro la filosofa francese Agacinski, se prima della Rivoluzione francese “i domestici rappresentavano una forma di manodopera che, a differenza del lavoro salariato moderno, rendeva la persona intera un mezzo a disposizione del padrone”, la maternità surrogata ripropone oggi di fatto quello stesso scenario incompatibile con la dignità umana, facendo in modo che i frutti del lavoro (in questo caso i figli) tornino ad appartenere “senza riserve” ai padroni (i committenti della surrogacy). In questo scenario, in fondo un regresso di civiltà, il tempo della gravidanza diventa qualcosa da cui la donna è chiamata a fare  astrazione. Secondo la Agacinski, che non si capacita di come la maternità surrogata possa essere diventata una bandiera per quella sinistra culturale e politica figlia delle indagini marxiane sull’alienazione, è come se questo tempo così intimo e personale dovesse invece diventare puramente biologico. Pura “biologia senza biografia”, quando invece nella lingua italiana ci riferiamo, non a caso, all’essere incinta attraverso l’espressione stato interessante, proprio per ricordare quanto la gravidanza sia ben più di un evento biologico. Ma se sperare/attendere un bambino e portarlo in grembo sono fenomeni del tutto incompatibili con le categorie del lavoro, è proprio questo invece ciò che la tecnologia della maternità surrogata richiede.  Sicché, la donna che fa la madre per conto terzi è chiamata a “vivere concretamente per 9 mesi, 24 ore al  giorno su 24, facendo astrazione della propria esistenza corporea e morale e dovendo trasformare il suo corpo in uno strumento biologico del desiderio altrui. Sinteticamente, dovrà vivere al servizio degli altri, escludendo come con un taglio dalla sua esistenza ogni significato che [l’esperienza della maternità] avrà per lei” – come se la vita corporea potesse diventare “lo strumento docile di una coscienza separata”.

“La disconnessione” e lo “spossessamento di sé” implicati secondo la Agacinski dalla maternità surrogata sono dunque il simbolo del rapporto ambivalente che lega la tecnologia alla temporalità.

Di fatto, essa ci raggiunge promettendoci una forma di padronanza e di sovranità che in alcuni casi decidiamo di pagare più che con il denaro, con una sorta di melanconica alienazione. Ovviamente, nei dettagliatissimi contratti di maternità surrogata questa clausola non compare. Ma in fondo è così che li suggella la mano invisibile del mercato.

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 17, NUMERO 2, Giugno 2016