L’uomo e il tempo, Dio e l’eternità: breve riflessione sul senso e la natura di questo rapporto

(di Antonio Bellingreri)

Risale ai miei anni universitari la lettura delle prime opere di Jean Guitton, il filosofo francese amico di Paolo VI, unico laico cattolico invitato come osservatore al Concilio Vaticano II. Sono quasi tutte ispirate da Sant’Agostino, per lo più scritte col proposito di approfondire i passaggi più rilevanti dal punto di vista filosofico delle Confessioni. È evidente quanto Guitton fosse affascinato dalla genialità con cui questo libro è costruito e conquistato, in particolare, dall’idea che ciascuno possa vedere la propria storia personale dal punto di vista dell’eternità – dal punto di vista di Dio che è l’Eterno. Scelgo di seguire le suggestioni contenute nell’interpretazione che egli elabora della celebre «autobiografia spirituale», per riflettere sul nostro tema, sul nesso che il tempo e la storia hanno con l’eterno. È una via forse più agevole, piana in senso musicale, che ci consente di affrontare con una certa adeguatezza un oggetto così arduo (in verità anche un po’ desueto per la sensibilità prevalente nella nostra epoca).

Il senso compiuto di tutta l’esistenza

Cominciamo col notare che per Agostino la storia di ogni uomo che viene a questo mondo può esser vista sia in senso «orizzontale», come svolgimento successivo nel tempo, sia in senso «verticale», come Dio stesso la vede in ogni momento del tempo. Agostino ragiona così, guarda l’esistenza nel suo nesso col Signore dell’esistenza perché vuole filosofare senza mettere tra parentesi le evidenze elementari della sua vita di credente, prima fra tutte la dipendenza di ogni creatura dal Creatore dell’essere. È un metodo che possiamo chiamare «approccio cristiano», precisando che consiste nella scelta di pensare permanendo nella prossimità e nella frequentazione del Mistero cristiano; con lo scopo di giustificare, ossia rendere evidente la profonda ragionevolezza di questo Mistero. Naturalmente al pensiero è chiesto di essere fedele al rigore e alla oggettività che sono necessari perché esso sia autentico, pertanto fedele alle istanze della realtà e della ragione – pena non essere affatto un pensiero.
Ora, il tema e il problema centrali delle Confessioni si precisano se vengono formulati in questo modo: qual è, nella storia di ogni uomo, il senso compiuto dell’intervallo che va dalla nascita alla morte? C’è una unità di senso? E come è possibile scorgerla? Si tratta di una questione grave, perché se da un lato è presentimento comune che l’esistenza debba avere un ordito, dall’altro lato però quale esso sia non è dato conoscerlo. Detto altrimenti, per un verso, è un mito persistente, radicato in molte culture, che possa esserci da qualche parte un libro in cui sono scritti tutti i segreti delle nostre esistenze. Potrebbe contenere la chiave se non per conoscere, almeno per divinare il senso che connette in unità tutti gli eventi dell’esistenza; un senso compiuto, intendo, come quello che si offre ad uno sguardo retrospettivo o che potremmo avere di una pianura osservandola dall’alto di un monte prospiciente. Ma, per un altro verso,c’è nell’esistenza una parte di eventi che ci tocca «in sorte», come noi diciamo, perché sono eventi che non dipendono da noi; dunque la trama non è poi mai così semplice perché rinvia ad un altro ordine di causazione – altro rispetto a quello che dipende da noi.
Di passaggio notiamo subito che questo è forse il soggetto proprio della tragedia classica, sia antica (si pensi ad Edipo) sia moderna (Amleto e Faust), ma anche quello della tragedia cristiana (Polyeucte): in questo genere letterario, si tratta proprio di pensare la relazione tra i due ordini di causalità, quello della nostra libertà e quello che non dipende da essa, ma da un «destino» che piuttosto la vincola.

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L’esperienza del tempo

Sono celebri le pagine che Agostino dedica al tempo, nel libro XI della sua opera. C’è il presente, egli scrive, che viviamo in presa diretta per così dire, ma che appare subito enigmatico: va verso il non esser più, finisce subito e diventa passato; e verso il non esser ancora, apre al futuro sempre da-venire. È certo però che il nostro passato, che non è più, può vivere in noi come ricordo; così come il nostro futuro, che non è ancora, viene attualmente vissuto come attesa di quanto sta per accadere. Ora, secondo Agostino, è in quest’ultima disposizione di fronte a quanto sta per accadere che si trova l’anima vera del presente. Detto meglio, nell’attesa di un compimento da-venire si genera l’unità di senso del presente e del passato, perché quanto attendiamo svela verso dove si protende quanto accade e come va inteso quanto già è accaduto. Riflessione della massima importanza, perché proprio l’esperienza del tempo come attesa di un compimento ci aiuta a tutto ricomprendere, manifestando l’essenziale: l’essenziale è che il tempo deve avere quattro dimensioni, perché il passato il presente e il futuro sono sospesi sino all’avvento dell’Ultima ora. Preferisco scrivere questo termine con la lettera maiuscola, a significare ed evidenziare che si tratta del momento in cui, con la morte, l’esistenza nostra si compie in modo ultimativo: la trama del tempo pare allora tutta dispiegata; ma proprio la morte apre all’atemporale, a quanto non è più segnato dal tempo. Con l’Ultima ora infatti non si tratta più dell’avvenire; s’apre invece l’eterno: che non è l’avvenire, ma la rivelazione assoluta dell’avvenire, dunque una dimensione ulteriore o superiore (ma si può anche dire interiore) del tempo.

La conoscenza storica

Un’esperienza del tempo nelle sue quattro dimensioni, ossia nel suo rapporto con l’eterno, sotto qualche aspetto può essere offerta dalla conoscenza storica del passato, quando ad esempio ci poniamo a ricostruire l’intero percorso di vita di una persona (può essere, entro certi limiti, il nostro). In effetti, è condizione in qualche modo necessaria che per narrare una vicenda personale dobbiamo vedere il tempo dell’esistenza in una qualche unità di senso; dunque in un certo modo siamo costretti ad assumere una prospettiva che si posizioni al di là del tempo. Può apparire paradossale, ma possiamo intenderlo senza molte difficoltà: quando pensiamo che in quanto una storia personale viene raccontata, ogni istante di essa diviene prefigurazione del tempo da venire. L’incompiutezza è insuperabile, naturalmente, sinché il percorso di una vita non si completi: tutto resta sospeso perché l’ultima ora può cambiare l’unità di senso, la finalità precedentemente intuita. Per tale ragione, commenta Guitton, la storia è sempre escatologica: essa resta sospesa all’ultimo momento, che è il momento ricapitolatore perché conferisce il significato assoluto (non più relativo) a ciò che è stato. Certamente questo filosofo, movendosi all’interno dell’«approccio cristiano», fa una tale notazione perché trova profondamente ragionevole riconoscere che ogni persona è creata nella sua singolarità dal Creatore, Ineffabile Donante. E dire che ogni persona è creata significa dire che è pensata e voluta, secondo un’idea o un Disegno, che è eterno perché ha parte al Mistero stesso dell’Eterno – di Colui che è sottratto al tempo. Ora, nella prospettiva del Mistero cristiano, la Volontà dell’Eterno è che questo Disegno possa compiersi, senza mai far violenza alla libertà della creatura. E se questa non conosce la Mente divina, il destino personale – forse è meglio scrivere la destinazione di ogni persona – la creatura può in qualche modo intenderlo, leggendo e interpretando come tracce del destino gli eventi che le accadono.

Il tempo sottratto all’annientamento

Si tratta dunque non di una visione eterna dell’intero della nostra esistenza, ma di una visione pre-eterna, per così dire: essa può anticipare in qualche modo quella visione in cui tutti – ma proprio tutti – gli atti singoli vissuti sono fissati eternamente e il nesso tra di loro che disegna un ordito diviene allora ben comprensibile. Per il cristiano Agostino la visione eterna di cui parliamo è una partecipazione allo Sguardo col quale Dio ci vede eternamente. In quello Sguardo tutti gli atti, anche quelli apparentemente insignificanti, della nostra vita, acquistano un significato eterno, pertanto sono sottratti all’annientamento e nulla, nessun frammento della vita, va perduto. Ci aiuta ad esprimere bene questo pensiero la parola di un monaco del Monte Athos: «Gli angeli raccolgono le pietre toccate dall’uomo che è sulla strada del Signore, perché niente va perduto». Trovo che si tratti di un pensiero idoneo a farci percepire un lato della Divina Misericordia sul quale non riflettiamo forse abbastanza; e ancora, il rilievo che la nostra vita umana sia salvata dal niente, certamente ci consente una qualche comprensione più concreta della vita eterna. L’eterno, possiamo dire sinteticamente con le parole di Guitton, è la conoscenza del tempo totale che «va dall’alfa all’omega»: dall’inizio della storia, che avviene con la nascita del neonato, dopo l’antestoria della vita uterina, all’inizio dell’eterno, che avviene con l’uscita del neo-morto, nell’ultimo istante. È l’«Apocalisse», la rivelazione di ogni momento del tempo visto nell’Eterno.

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 17, NUMERO 2, Giugno 2016