(di P. Antonio Maria Sicari ocd)
In qualche moderno dizionario la parola “tolleranza” viene definita come “quell’atteggiamento teorico e pratico di chi – in fatto di religione, politica, etica, scienza, arte, letteratura o in generale altri principi morali – rispetta le convinzioni altrui, anche se profondamente diverse dalle sue, senza impedirgli di praticarle”. Ma bastano le ultime tre parole di questa definizione per capire quanto la tolleranza possa diventare impraticabile e dannosa, dato che impedisce, a qualunque tipo di società, di definire l’intollerabile: niente dovrebbe più essere proibito, e nessuna legge potrebbe più essere codificata. Inoltre, prima ancora della “pratica”, verrebbe resa inutile, oltre che impossibile, ogni ricerca e ogni difesa del vero, del buono, del giusto e del bello. C’è poi il paradosso conclusivo, che è stato più volte sottolineato: ogni discorso sulla tolleranza finisce per distruggere se stesso quando si arriva, per estrema coerenza, a dover essere tolleranti anche con gli intolleranti.

La novità dell’in-contro al tempo dei pluralismi
Mi pare che quindi oggi si possa ripetere, in fatto di tolleranza, quel che – quasi quarant’anni fa – già scrivevamo, sulla questione (allora agitata) del “pluralismo”:
«Quello che occorre chiedersi – prima di ogni assenso – è se il termine “pluralismo”, oltre a indicare il diritto all’esistenza (e al rispetto, e alla “pari dignità” ecc.) di tutta la pluralità, non indichi, ancor prima, che tutta la pluralità soggiace a un unico principio: che non esiste nulla per cui valga la pena di vivere e di morire, e che – se si vive e si muore per qualcosa – lo si fa solo perché si ha avuto la sorte (o la sventura) d’essere stati collocati dal “caso (in gran parte spazio-temporale) in un certo “settore”, un po’ troppo rigido e dogmatico, di quella molteplicità. Così, per intendersi: ognuno può avere una sua “concezione del mondo”, perché in fondo nessuna è vera (o è riconoscibile come tale) e tutte hanno la stessa probabilità, e quindi ognuno potrebbe averne anche un’altra… Ci accorgiamo così che – nella stragrande maggioranza dei casi – la parola pluralismo ha due sensi: uno superficiale, che esprime l’accoglienza apparentemente positiva e rispettosa di tutte le diversità; e uno più profondo, che accomuna ferocemente tutte le diversità dentro la stessa insignificanza (…). In tal modo proprio l’aggettivo “pluralista” può giungere a qualificare una società in cui ideologie, culture, filosofie e concezioni del mondo vanno confluendo in un’unica, suprema e vuota, non-ideologia, non-cultura, non-filosofia, non-concezione del mondo. Il pluralismo finisce così per indicare null’altro che un processo di svuotamento progressivo: se infatti nulla vale nulla, il pluralismo è il custode soddisfatto di molteplici nulla» (Editoriale, Communio, n. 68, 1983).
In ogni caso bisognerà ammettere che la moderna tolleranza deve comunque imparare a darsi dei limiti, se vuole produrre dialoghi utili e generare delle relazioni costruttive.
In questo senso la parola “in-contro” potrebbe indicare un metodo utile per restare nei confini di una tolleranza plausibile: la piccola preposizione (in) che precede la parola contro, toglie la contrapposizione violenta, evita lo scontro, e permette di entrare in relazione anche con qualcosa o qualcuno che si presenta a noi con una marcata diversità, fino ai limiti di un insanabile contrasto.
In tal caso, però, i due interlocutori non si irrigidiscono nel fatto di prevedere dei confini che non possono e non devono essere oltrepassati, né devono imporre a se stessi un relativismo buonista, ma incoerente.
Essi devono restare disponibili a un abbraccio, ma senza farsi reciprocamente del male e senza mettere in atto una reciproca derisione.
In tal caso il beneficio (per ambedue gli interlocutori) sarebbe quello di poter dialogare allo scopo di ripulire ciascuno le proprie convinzioni ed abitudini da innumerevoli sovrastrutture sentimentali e pseudoculturali che non dipendono nemmeno da un sistema organico di principi e di convinzioni, ma sono soltanto sedimentazioni malsane prive di una vera dignità di pensiero.
L’insufficienza cristiana della tolleranza
L’Osservatore Romano del 1° giugno 2020 ha pubblicato, in proposito, un articolo del teologo M. G. Masciarelli in cui si leggono questi giudizi entusiastici:
«Tolleranza, che è una parola di civiltà, ci è parsa giustamente e a lungo anche una parola piena di dignità, in buon accordo con i valori cristiani che hanno sempre, come nucleo duro e dolce, un contenuto umanistico. (…). I benefici culturali, etici, giuridici, politici, religiosi, pedagogici che il “principio della tolleranza” ha procurato nel tempo moderno-contemporaneo sono pressoché innumerevoli. La tolleranza s’è mostrata e resta uno dei valori indispensabili nella società di oggi. A buon diritto è definita virtù sociale, che riguarda il modo di comportarsi nella vita associata. Questa è la virtù civile che insegna a trattare le diversità con equilibrio, con giustezza di approccio, con buonsenso».
Per fortuna, non mancavano poi alcune considerazioni più utili e correttive, a riguardo dell’ “insufficienza cristiana” di questa stessa “virtù sociale”:
«Tuttavia, nonostante la fecondità di sensi e di benefici arrecati, tollerare non basta perché ha di per sé dei limiti, mentre in ambito cristiano si sente il bisogno di proporsi una meta più alta e più vasta della tolleranza. Senza enfatizzare il valore delle etimologie, va notato che il verbo “tollerare” si pone in un’ottica negativa: significa che tollerare gli altri è un peso da portare. Il verbo “tollerare” ha, in fondo, il senso del verbo “accettare”, cioè del sopportare con pazienza e gentilmente le diversità delle opinioni, delle valutazioni e delle scelte degli altri e allo stesso tempo mostrare comprensione verso gli atteggiamenti e i comportamenti altrui, anche quando non li si approva. L’elemento nascostamente scontroso del verbo tollerare viene così alleggerito dalla pazienza e alla gentilezza che si richiedono per essere tolleranti». In fine viene anche suggerita una scelta più cristiana e conclusiva: «È venuto il momento d’impegnarsi a costruire la più impegnativa cultura della convivialità. Questa è la parola con cui possiamo oltrepassare, da cristiani, la tolleranza. Per i cristiani in questa parola vibrano tutti i dinamismi che la fraterna Mensa eucaristica sa suscitare, nutrire e sostenere».
L’Assoluto che si rivela svela l’uomo a se stesso
Vorrei qui aggiungere che l’insufficienza cristiana della parola tolleranza emerge non perché impone di accettare un notevole e quasi insostenibile sovraccarico di pazienza e di gentilezza, ma perché di natura sua il cristianesimo si fonda su affermazioni assolute incompatibili per principio con qualsiasi tolleranza.
Senza scendere in tutta la profondità delle verità che i cristiani considerano come divina e indiscutibile “rivelazione”, ci chiediamo soltanto: che ne è (dentro una opzione di “tolleranza”) di queste due affermazioni – legate al Concilio Ecumenico Vaticano II – che Giovanni Paolo II ha precisato in maniera così martellante nell’Enciclica Redemptor hominis? (E si badi alle espressioni in carattere corsivo, volutamente selezionate):
«L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente. E perciò appunto Cristo Redentore – come è stato già detto – rivela pienamente l’uomo all’uomo stesso… Nel mistero della Redenzione l’uomo diviene nuovamente «espresso» e, in qualche modo, è nuovamente creato. Egli è nuovamente creato! (…). L’uomo che vuol comprendere se stesso fino in fondo – non soltanto secondo immediati, parziali, spesso superficiali, e perfino apparenti criteri e misure del proprio essere – deve, con la sua inquietudine e incertezza ed anche con la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo. Egli deve, per così dire, entrare in Lui con tutto se stesso, deve «appropriarsi» ed assimilare tutta la realtà dell’Incarnazione e della Redenzione per ritrovare se stesso» (…). In realtà, quel profondo stupore riguardo al valore ed alla dignità dell’uomo si chiama vangelo, cioè la buona novella. Si chiama anche cristianesimo. Questo stupore giustifica la missione della chiesa nel mondo, anche, e forse di più ancora, nel mondo contemporaneo» (Red. Hom. n. 10).
Va inoltre ribadito che non si tratta dell’uomo «astratto», ma reale, dell’uomo «concreto», «storico». Si tratta di «ciascun» uomo, perché ognuno è stato compreso nel mistero della Redenzione, e con ognuno Cristo si è unito, per sempre, attraverso questo mistero. Ogni uomo viene al mondo concepito nel seno materno, nascendo dalla madre, ed è proprio a motivo del mistero della Redenzione che è affidato alla sollecitudine della Chiesa. Tale sollecitudine riguarda l’uomo intero ed è incentrata su di lui in modo del tutto particolare. L’oggetto di questa premura è l’uomo nella sua unica e irripetibile realtà umana, in cui permane intatta l’immagine e la somiglianza con Dio stesso… L’uomo così com’è «voluto» da Dio, così come è stato da Lui eternamente «scelto», chiamato, destinato alla grazia e alla gloria: questo è proprio «ogni» uomo, l’uomo «il più concreto», «il più reale»; questo è l’uomo in tutta la pienezza del mistero di cui è divenuto partecipe in Gesù Cristo, mistero del quale diventa partecipe ciascuno dei miliardi di uomini viventi sul nostro pianeta, dal momento in cui viene concepito sotto il cuore della madre (ivi, n. 13).
Quale tolleranza oggi per la Verità?
Credo che, anche dopo tali espressioni così assolutizzanti, si possa e si debba chiedere a dei cristiani di viverle e applicarle in modo tollerante e non violento, ma ciò non toglie che a tanti nostri contemporanei esse continueranno comunque ad apparire intollerabili (producendo perfino fenomeni di rigetto e di violenza anticristiana).
Come dimenticare il fatto che abolire i crocifissi e le espressioni visibili della fede cristiana sembra divenuto, per tanti nostri contemporanei, una conquista della cosiddetta “intolleranza negativa”: quella per cui si deve diventare intolleranti verso alcuni (verso i cristiani ad esempio), per rendere tutti più tolleranti…
Lo stesso vale per l’abolizione di una visione cristiana della famiglia, della sessualità, della libertà e della stessa ragione umana, in nome di una nuova visione (dell’uomo, della società e del mondo) che possa essere vincolante per tutti, nel senso che non prevede nessun vincolo.
La domanda pertanto resta: come essere davvero tolleranti con chi considera intollerabile ogni definizione di fede, ogni prescrizione morale, ogni precisazione antropologica, ogni destino assegnato da Dio, ogni via che è necessario percorrere e ogni porta che è necessario oltrepassare?
La dolcezza e la poesia evangeliche, come pure la tenerezza misericordiosa della carità cristiana, non bastano a eliminare quel fastidio di intollerabilità con cui tanti non credenti leggono e ascoltano le più belle autodefinizioni con cui Cristo continua ad affermare oggi (e non solo per i cristiani!): «Io sono la Via, la Verità, la Vita, la Luce, il Pane della vita, la Risurrezione».
Tentiamo qui una risposta provocatoria, ma che mi sembra comunque affascinante: forse, oggi, considerare tollerabile Cristo e il Suo Vangelo (così com’è, senza alcun addolcimento) è divenuto il nome nuovo che occorre dare alla parola “conversione”. E di conseguenza, la missione cristiana o la “nuova evangelizzazione”, non consistono nel rendere tollerabile (con delle furbizie linguistiche o delle sottigliezze argomentative o delle riduzioni sociologiche) ciò che a molti sembra comunque intollerabile, ma nel mostrare la bellezza di un cambiamento mentale e di vita che si apra fino a desiderare e sperimentare la bellezza di questo “divino intollerabile”.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 21, NUMERO 2, Ottobre 2020