IL DESTINO DEI CORPI NELL’EPOCA DELLE TECNOLOGIE
(A. Musio)
Per capire che cosa stia accadendo a livello dei nostri corpi nell’epoca delle tecnologie può essere utile prendere come riferimento il caso della maternità surrogata. La pratica della sostituzione di maternità ― in cui una donna porta in grembo e mette al mondo un figlio per poi affidarlo a chi ne ha commissionato in vari modi l’esistenza ― rappresenta, infatti, uno strano connubio di tecnologia e carnalità in cui, tanto più cresce il portato tecnologico, tanto più sembra rarefarsi e smaterializzarsi la stessa carne delle persone che coinvolge.

La scissione del materno
Se la fecondazione in vitro (FIVET) aveva già reso possibile il fenomeno della delega della generazione alla tecnologia (secondo l’espressione di Adriano Pessina), quando essa incontra la pratica della sostituzione di maternità si assiste anche al fenomeno, mai accaduto nella storia dell’umanità, della scissione del materno in tre figure femminili.
Non solo il processo generativo, quindi, è sostituito dalla tecnologia, ma il materno viene appositamente scisso proprio per ammettere la logica del rimpiazzo. Nell’insieme le madri sono infatti tre: quella che dà l’ovocita (la madre genetica), quella in cui avviene la gestazione e il parto (la madre surrogata) e quella che si occuperà del bambino una volta nato, se di una donna effettivamente si tratterà.
Così, tutto il discorso sulla surrogacy sembra ruotare unicamente intorno alle madri che paiono le uniche protagoniste della vicenda, per quanto cerchino di non concepirsi di fatto come tali: la madre genetica, infatti, nella stragrande maggioranza dei casi non ha nessuna esperienza della gravidanza e neppure del bambino, dato che si limita a mettere a disposizione i suoi ovociti per un processo (ri–)produttivo che avviene in laboratorio, mentre la madre che ha l’esperienza della gravidanza e del parto assolve nel bio–business della surrogacy una mera prestazione lavorativa, somigliando di fatto a un utero artificiale di carne, in anticipo sui tempi della sua stessa realizzazione tecnologica.
Eppure, in questo racconto tutto al femminile di madri che si moltiplicano mentre non si percepiscono come tali, sembrando così evaporare ― non a caso in letteratura si parla di “eclissi”, di “scomparsa” e di “fine” della madre ― ciò che balza agli occhi è la dimenticanza di tutte le altre persone umane in gioco in questo inquietante processo generativo.
Persone in gioco ma fuori scena
Se ci chiediamo, infatti, quali siano le persone in gioco non possiamo fermarci al fatto che ciò che in una normale generazione avviene nel corpo di un’unica madre si trova qui a essere scisso, e dunque per paradosso moltiplicato per tre, senza il darsi, però, dello stesso senso di responsabilità.
E questo perché una generazione non può avvenire senza che ci siano anche dei padri, che infatti sono i grandi assenti dei dibattiti bioetici sulle tecnologie riproduttive. A ben vedere, la scomparsa, l’eclissi, la fine ― possiamo mettere al maschile le espressioni sopra ricordate in relazione alle madri ― del padre è già evidente in quel suo strano ridursi nei tracciati della generazione tecnologica a mero spermatozoo ― laddove i futuri scenari prevedono che in futuro sarà possibile ricavare tecnologicamente uno spermatozoo da una cellula della pelle di un corpo femminile, così come dalle cellule del corpo maschile sarà possibile ricavare degli ovociti.
Se nella maternità surrogata troviamo, così, donne pensate in chiave tecnologica come ovociti o come utero e uomini ridotti a spermatozoo, per alcuni pensatori questo inquietante scenario prelude a un futuro in cui la generazione diverrà possibile manipolando e unendo in laboratorio il materiale genetico proveniente da persone di uno stesso sesso o al limite di una sola persona.
La dissoluzione della carne
Così, a guardare con attenzione ciò che sta avvenendo nell’ambito delle tecnologie riproduttive sembra quasi che il progetto non sia soltanto quello di far saltare completamente il maschile e il femminile, e la stessa differenza sessuale che li attraversa e li costituisce, ma ancor più radicalmente la carne delle persone umane. E se queste considerazioni sembrano dare ragione a Simone Weil, quando sosteneva che «l’uomo» ― non Dio! ― «deve fare l’atto di incarnarsi, perché è disincarnato dall’immaginazione», per comprendere davvero la posta in gioco, basta continuare la ricognizione delle persone in gioco, ma fuori di scena, nella maternità surrogata.
Oltre ai padri (assenti perché ridotti a spermatozoo) e alle madri (moltiplicate perché scisse) ci sono, infatti, anche i figli che eventualmente possono già essere nati e che osservano la loro madre impegnata in una gravidanza per altri. Ora, questi bambini assistono alla sparizione del fratellino o della sorellina che hanno inevitabilmente finito per attendere anche loro durante il tempo della gravidanza. Che cosa accadrà dunque quando dopo il parto i neonati saranno consegnati ai committenti? Non è difficile immaginare che questi fratelli rimasti in compagnia della madre finiranno per chiedersi se un destino analogo di abbandono e di sparizione non sarebbe potuto capitare anche a loro. E poi c’è lui, il protagonista della vicenda ma che, in realtà, è l’oggetto di tutta la pratica: il figlio, che perde il legame con la madre, quando proprio il legame mamma–bambino nella gravidanza rappresenta l’unico caso in cui la relazione diventa qualcosa di fisico, materiale, appunto carnale ― tant’è che il fallimento, almeno per ora, nella costruzione dell’utero artificiale riguarda proprio il fatto che non si riesce tecnologicamente a sostituire le funzioni della placenta, proprio perché essa è co–costruita dal corpo della madre e del bambino.
A ben vedere, dunque, la posta in gioco nella maternità surrogata non è solo quella dello scindersi del materno e della progressiva marginalizzazione generativa della figura del padre, ma del significato della stessa carnalità per le persone umane.
Ecco perché possiamo chiudere questa riflessione ricordando l’immagine della “noce” del grande teologo Hans Urs von Balthasar, che immaginava di poter comprendere la verità del rapporto umano con l’intero essere, a partire dal legame carnale tra madre e bambino, scandendola lungo quattro incisivi passaggi: «1. nell’amore egli [il bambino] è unito con sua madre, benché le stia di fronte, dunque ogni essere è uno; 2. quest’amore è buono, dunque tutto l’essere è buono; 3. quest’amore è vero, dunque tutto l’essere è vero; 4. questo amore suscita gioia, dunque tutto l’essere è bello» (La mia Opera ed Epilogo, trad. it., Jaca Book, Milano 1994, p. 89). Per poi aggiungere: «l’epifania dell’essere ha senso solamente se, nella manifestazione, cogliamo l’essenza di ciò che si dà a vedere. Il bambino non riconosce una mera apparizione, bensì la madre in sé» (ivi). Nel tempo della tecnologia, della scissione del materno, della sostituzione delle madri e del rarefarsi del paterno è questa, allora, la posta in gioco della difesa della carnalità, a cominciare dalla generazione. Sta a noi il compito di evitare che in nome della potenza confusa e magmatica dei desideri umani, a cominciare da quelli generativi, spariscano tecnologicamente quei corpi che sono alla radice stessa, a ben vedere, di ogni desiderare.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 22, NUMERO 5, Dicembre 2021