(Massimo Gelmini)
La politica europea in tema di immigrazione e asilo lungo la rotta del Mediterraneo si è rivelata inefficace e dannosa. Il sistema dei respingimenti in mare e della detenzione in Libia che l’Europa ha contribuito a creare finisce con il favorire interessi illeciti, non ostacola la tratta di esseri umani e ha permesso gravi violazioni dei diritti umani, documentate da organizzazioni umanitarie e denunciate nei rapporti delle Nazioni Unite. Raccontate in inchieste giornalistiche, restano tuttavia ad oggi ampiamente inascoltate.

La politica dei respingimenti: i dati del 2021
Dopo quattro anni di calo, è tornato a salire nel corso del 2021 il numero dei migranti morti e dispersi nel Mediterraneo: più di 1600 persone, secondo i dati OIM (l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), sono scomparse lo scorso anno lungo le rotte che dal nord Africa, dall’Egitto e dalla Turchia conducono in Europa, approdando in Spagna, Italia e Grecia. Questo mentre stanno di nuovo aumentando i flussi lungo le direttrici che attraversano il Mediterraneo centrale. Se nel 2019 sono stati circa 11.000 i migranti che hanno raggiunto l’Italia e 9.000 quelli intercettati dalla cosiddetta Guardia Costiera libica e riportati indietro, per il 2021 si sono contate rispettivamente 65.000 e 32.000 unità. Certamente numeri molto lontani dai 150.000-200.000 registrati annualmente tra il 2014 e il 2016, ma la tendenza crescente è evidente.
All’acuirsi del fenomeno migratorio ha indubbiamente contribuito la pandemia che, se da un lato ha peggiorato le condizioni economiche dei Paesi d’origine e di transito, dall’altro ha provocato una “regionalizzazione” dei flussi, costringendo i migranti a intraprendere viaggi più articolati, composti da percorsi più brevi ma anche più pericolosi.
Tralasciando gli sconvolgimenti seguiti allo scoppio della crisi Ucraina, che ha indotto i Paesi dell’Unione a sforzi straordinari per accogliere un’ondata eccezionale di profughi in fuga dalla guerra, la risposta degli Stati europei di fronte all’aumento degli arrivi attraverso il Mediterraneo continua ad essere quella di un progressivo inasprimento delle misure di repressione o di deterrenza rispetto alla migrazione irregolare: maggior pattugliamento dei confini, impiego di droni per il monitoraggio in mare aperto, adozione di leggi più severe e restrittive in materia di richiedenti asilo. Misure che rischiano di essere però inefficaci, quando non addirittura controproducenti, se – come è successo – possono essere sfruttate da Paesi terzi per esercitare pressione politica sull’Europa, mettendola in difficoltà e sottoponendola al ricatto dell’assalto incontrollato ai suoi confini.
Mentre è difficile sapere se e quando avverrà la svolta nelle politiche europee sull’immigrazione e in attesa che la discussione del nuovo Patto Europeo su Migrazione e Asilo diventi qualcosa di più di un ambizioso programma tutto da realizzare, la pratica più ricorrente rimane quella dell’esternalizzazione della gestione delle frontiere. Pratica che purtroppo si è dimostrata non solo inefficace ma anche pericolosa e distruttiva per la vita delle persone fermate e respinte alle porte d’Europa o ai confini del Mediterraneo.
Il Memorandum d’Intesa Italia-Libia: un accordo sotto accusa
Il caso più eclatante è quello della collaborazione tra Unione Europea e Libia, che vede l’Italia protagonista in prima linea dal 2017, quando sono stati sottoscritti accordi con il Paese nord-africano che avrebbero dovuto contenere i flussi migratori attraverso il Mediterraneo e ridurre l’arrivo di migranti sulle coste italiane, grazie all’azione deterrente e ai maggiori controlli sulle partenze effettuati dalla Guardia Costiera libica, in cambio di finanziamenti – cospicui –, e forniture di servizi ed equipaggiamenti. L’applicazione del Memorandum d’Intesa, siglato il 2 febbraio 2017 dall’allora governo Gentiloni e sponsorizzato dall’Unione Europea, ha fatto sì che negli ultimi 5 anni siano state riportate in Libia circa 82 mila persone.
Costato complessivamente all’Italia più di 960 milioni di euro (di cui buona parte, circa il 30%, spesi in missioni militari in Libia), il Patto è stato tacitamente rinnovato lo scorso febbraio, nonostante le numerose critiche mosse da parte degli operatori umanitari che ne hanno messo in evidenza i limiti in termini di efficacia e pericolosità. Da quando sono in vigore questi accordi, infatti, le morti in mare non sono diminuite e l’aver impedito alle Associazioni umanitarie di prestare soccorso ha messo ancora più a rischio la vita di coloro che affrontano la traversata; ma ancor più grave è il fatto che, una volta riportati in Libia, migliaia di respinti siano stati catturati e fatti “sparire” dentro centri di detenzione clandestini in mano a trafficanti e gruppi armati che gestiscono il business dei sequestri. Quella che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto essere una collaborazione con benefici per entrambe le parti si è trasformata – secondo quanto emerso dalle molteplici denunce e dai racconti degli scampati – in una tragedia umanitaria di cui sono vittime migliaia di persone, anche minori, sequestrate o rinchiuse in veri e propri lager, sottoposte a maltrattamenti e abusi di ogni genere, in condizioni incompatibili con il rispetto dei diritti fondamentali. Una macroscopica e perdurante violazione dei diritti umani che verrebbe perpetrata, sostengono i rapporti delle Nazioni Unite, non solo ad opera di gruppi armati e trafficanti libici e internazionali ma con la complicità di funzionari della Direzione per la Lotta all’Immigrazione Illegale (DCIM) del Ministero dell’Interno libico.
Un’industria della tratta e della detenzione arbitraria di cui si renderebbe complice anche il nostro Paese, continuando a finanziare la Guardia Costiera (dal 2017 destinataria di circa 33 milioni di euro) o altre autorità libiche «palesemente conniventi con i trafficanti di esseri umani». Lo ha denunciato Paolo Pezzati, policy advisor per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia, il quale, contestando la scelta di continuare a ritenere la Libia porto sicuro per lo sbarco dei migranti, ha rivolto un appello al Parlamento e al Governo italiano perché siano revocati i finanziamenti per il 2022 stanziati per la Guardia Costiera libica e si interrompa l’accordo Italia-Libia, rimandando qualsiasi intesa alla fine della fase di transizione politica nel Paese nord-africano e subordinandola all’introduzione di inderogabili riforme che garantiscano il rispetto dei migranti e dei rifugiati.
Le violazioni documentate da Amnesty International e le inchieste di Avvenire
Detenzione arbitraria, tortura, trattamenti inumani, stupri, violenze sessuali, lavori forzati e uccisioni sono i crimini commessi a danno di migranti catturati dai guardacoste libici e denunciati nel rapporto di Amnesty International risalente all’estate scorsa, dal titolo “Nessuno verrà a cercarti: i ritorni forzati dal mare ai centri di detenzione della Libia”. Nel documento viene messa in luce la perdurante connivenza delle autorità libiche, responsabili di aver riconosciuto e integrato nella struttura del DCIM almeno due centri di prigionia informali originariamente sotto il controllo di varie milizie (il Centro di Raccolta e di Ritorno di Tripoli, meglio conosciuto col nome al-Mabani e il centro di Shara’ al-Zawiya, a Tripoli), all’interno dei quali sarebbero avvenuti svariati casi di abuso e sparizione forzata di migranti e rifugiati, fatti questi che si sarebbero ripetuti anche dopo la “regolarizzazione” avvenuta nel 2020. Il rapporto riferisce di sistematiche violazioni dei diritti umani, tra cui pestaggi, estorsioni e violenze, avvenute in sette centri di detenzione controllati dal DCIM e denuncia il ruolo degli Stati europei che, rinnovando la cooperazione con la Libia in tema di migrazioni e controllo frontaliero, hanno sottovalutato le contestazioni sulle brutalità commesse nei centri di raccolta e avallato di fatto decisioni e pratiche non difendibili.
«Tra il mare e il deserto anche i diritti umani sono ormai un miraggio», è l’amara conclusione di Nello Scavo, giornalista inviato speciale di Avvenire, noto da tempo per il prezioso lavoro di documentazione del dramma dei migranti, in particolare in Libia ma non solo, e per le inchieste che hanno fatto emergere violazioni e responsabilità, tra cui quella riguardante Bija, un trafficante di esseri umani che, sebbene sottoposto al blocco dei beni da parte delle autorità libiche e destinatario di un mandato di cattura internazionale, è tornato a comandare alcune motovedette nell’area di Shara’ al-Zawiya. Per aver rivolto la propria attenzione su questo caso e aver messo in evidenza la corruzione diffusa e le illegalità del Paese nord-africano – divenuto porto franco per traffici illeciti e luogo di concentrazione di interessi mafiosi, legati al business del contrabbando di petrolio e stupefacenti, ancora più redditizio della tratta di persone –, Scavo è stato oggetto di ripetute minacce, a causa delle quali vive sotto protezione da due anni.
Purtroppo, considerando l’instabilità politica e le contrapposizioni tra faide in cui pare impantanato il Governo libico, non è realistico attendersi segnali di cambiamento. E permanendo uno stato di sostanziale illegalità, armi e connivenze continuano a farla da padrone. È del dicembre scorso la notizia di un’altra clamorosa promozione, quella di Mohamed al-Khoja alla direzione del DCIM. Al-Khoja è stato il leader di una milizia implicata in casi di torture a danni di migranti e per anni è stato il responsabile di Tarik-al-Sikka, struttura nota alle Nazioni Unite per le continue violazioni dei diritti umani. La nomina di Al-Khoja alimenta dubbi sulla capacità o volontà dell’Unione europea di esercitare un controllo sul sistema di detenzione che ha contribuito a creare in Libia attraverso i suoi finanziamenti al DCIM. È contraddittorio e inaccettabile che, nella confusione libica, Italia e Unione Europea continuino a intrattenere rapporti con uno Stato mafioso, sulla pelle dei migranti.
Nel silenzio scompaiono i dannati e si perdono le responsabilità
Inchieste come quelle di Avvenire provano a far luce sul dramma di chi, lungo il percorso che dovrebbe condurlo al sicuro fuori dalla povertà o lontano dalla guerra, finisce intrappolato dentro il gorgo libico, prigioniero di un meccanismo perverso che si prefigge il contrasto all’immigrazione irregolare ma persegue in realtà obiettivi criminali, propri del modello di business dei trafficanti, nello sprezzo di ogni regolamento e procedura, in palese violazione del diritto umanitario internazionale. E la denuncia è ancora più preoccupante perché fa emergere quanto tutto questo avvenga grazie all’inerzia o con la complicità silenziosa dell’Europa, che lascia inascoltate da mesi le richieste delle Nazioni Unite e di Organizzazioni umanitarie. In questo silenzio – da tempo non interrotto dal frastuono del dibattito pubblico e dell’accapigliarsi di tifoserie politiche contrapposte, perché il tema non riscuote più tanto interesse – vengono rinnovati accordi bilaterali e ci si dimentica facilmente della sorte di quanti vengono fermati o respinti prima di raggiungere le porte del continente.
Fuori dal radar delle motovedette e lontano dai ripetitori dell’informazione, scompaiono nel silenzio le vite dei migranti e richiedenti asilo che annegano nel Mediterraneo, magari a causa di un gommone sabotato, spariscono in uno dei tanti centri di detenzione clandestini, o vengono deportati nel deserto con operazioni di espulsione collettive e arbitrarie verso il Ciad, il Sudan o il Niger, senza che di loro si sappia più nulla. Naufraghi in mare o fantasmi nel deserto.
Dentro questo abisso si consuma il dramma di tante donne, di uomini e bambini ai quali Papa Francesco ha ripetutamente dichiarato la propria vicinanza, alzando la sua voce per chiedere una gestione più dignitosa del fenomeno migratorio lungo la rotta libica. «Non vi dimentico, sento le vostre grida», ha detto il Papa. Ma serve la volontà politica per un’inversione di direzione. È necessario che l’Italia e l’Europa si riapproprino della questione migratoria adottando una gestione lungimirante dei flussi, senza delegare ad altri Paesi la chiusura delle frontiere.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 23, NUMERO 1, Aprile 2022