Intervista al Dott. Alberto Pellai (a cura della Redazione)
Abbiamo incontrato il Dott. Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva, per parlare del rapporto oggi esistente tra la dimensione adulta e quella dei bambini, delle responsabilità dell’una e delle fragilità dell’altra, insomma delle nuove sfide che ci troviamo ad affrontare in questa nostra moderna epoca digitale. Tra ragazzini iperstimolati e adulti poco autorevoli, sta scomparendo il concetto di infanzia? O, come dice l’autore nel suo ultimo libro (Tutto troppo presto. L’educazione sessuale dei nostri figli nell’era di internet Ed. DeAgostini), «forse, il problema reale è che a essere scomparso è il concetto di adulto. Se non c’è l’infanzia, in effetti, non esisterà più nemmeno un adulto che se ne occupi e preoccupi»?

Assistiamo oggi allo spettacolo di adulti che non accettano la propria età anagrafica (e ciò che essa comporta) e, all’opposto, di bambini/preadolescenti stimolati a mostrarsi con abbigliamento e atteggiamenti da adulti. C’è quindi un legame tra l’infantilizzazione dell’adulto e l’adultizzazione del bambino? Come è avvenuto che si siano stemperate le differenze e confusi stati e ruoli?
Più che di “infantilizzazione” dell’adulto parlerei di “fragilità” della dimensione adulta. L’adulto spesso è una persona che non ha lavorato a fondo sulla sua storia di vita, quindi entra nell’adultità con attitudini che sono ancora un po’ narcisisticamente adolescenziali: gli piace fare delle cose per cui è apprezzato e valorizzato e spesso porta questa dimensione nella relazione con i figli, con i minori che dovrebbe invece aiutare a crescere. Agli adulti piace tantissimo essere amati, voluti bene. L’ideale per un adulto oggi sarebbe quello di riuscire a dire No, mettere regole e confini nella vita dei figli e ricevere un applauso e sentirsi dire: “Sei un adulto meraviglioso perché mi aiuti a diventare grande”. Invece è chiaro che c’è un aspetto conflittuale, anche faticoso, anche oppositivo nella relazione educativa e questa cosa disorienta tantissimo l’adulto. Sono tanti gli adulti che non riescono a rimanere adulti, compatti, tranquilli di fronte alla rabbia dei loro figli, che vivono, invece, come qualcosa che li ferisce profondamente e non come una reazione/esplosione emotiva. Questa fatica ha generato da una parte proprio la fragilità nel mettere confini, regole: alla fine l’adulto preferisce stare nel territorio di una relazione molto amichevole, giocandosi alla pari, aderendo all’idea che “se una cosa piace al mio bambino, al mio ragazzo, perché no?”. Vengono così concesse esperienze, strumenti, non in base alla consapevolezza educativa, ma in base semplicemente alla richiesta che il minore fa e alla popolarità abbinata a quella richiesta: sono tutte spinte generate dal mercato e non da un’attenzione educativa. È a questo livello che noi probabilmente abbiamo stemperato e confuso stati e ruoli ed è qua che i minori si sono trovati dentro la dimensione della sessualizzazione e della precocizzazione. Infatti non c’è niente di più efficace per fare soldi che offrire degli acceleratori della crescita a soggetti che effettivamente vogliono essere visti come soggetti più grandi della loro età, che così, possedendo certe cose o mettendo in gioco comportamenti adultizzanti, vengono riconosciuti dai coetanei come soggetti “popolari”.
Che effetti ha nella crescita dei bambini, dei ragazzi la forzatura della loro prematura erotizzazione? Percepire il corpo come oggetto di desiderio sessuale ma al di fuori di un contesto appropriato ed un pensiero adeguato?
Assistiamo al fenomeno di un corpo bambino collegato ad una mente bambina che però lavora intorno a quel corpo come se fosse un corpo adulto: nella sessualizzazione precoce dell’infanzia c’è davvero un anticipare le tappe rispetto alla biologia del corpo. Ci sono bambine di 9–10 anni totalmente bambine nella loro apparenza e nella loro corporeità che però gestiscono i movimenti del corpo, il linguaggio corporeo con i canoni che appartengono alla dimensione della seduttività, che è qualcosa che non dovrebbe appartenere loro. Le bambine non dovrebbero avere la preoccupazione di muoversi intorno al loro corpo con l’obiettivo della seduttività. Non viene così rispettata la fase–specificità (ossia il concetto che da sempre regola la funzione educativa e comporta dare stimoli e strumenti che siano adatti ad ogni specifica fase dello sviluppo, affinché il potenziale del bambino o del ragazzo venga stimolato e sostenuto nel miglior modo possibile. Ndr) con cui si confrontano i minori intorno al tema del corpo e della sessualità: ricevono infatti un sacco di messaggi, di stimoli, di inviti, di induzione a uscire dal territorio della fase–specificità e, chiaramente, si trovano a fare cose da grandi avendo una mente bambina che può anche progettare di fare le cose da grandi ma poi non le sa gestire perché profondamente immatura. Ciò produce un effetto che ritorna indietro su di loro come un boomerang perché si trovano intrappolati in copioni molto complessi, spesso molto autolesivi, di cui non prevedono le implicazioni e le conseguenze. I primi ad essere confusi e disorientati sono i genitori che non si rendono conto che alla figlia che aveva chiesto le ciabatte col tacco oppure il reggiseno, avendo 6 o 7 anni, avevano simpaticamente detto: “Cosa c’è di male? Non c’è niente di male, ce l’hanno tutti”. Così si inizia a costruire una sorta di apparato mentale dove un bambino di 7 anni si pensa adeguato indossando delle cose che dovrebbe indossare a 12 anni e di cui non ha la percezione della simbologia, dei significati intrinseci. Si trova, perciò, dentro dei copioni che sono totalmente inadeguati rispetto ai suoi bisogni di sviluppo.
Quali sono le cause di questo fenomeno?
Il mercato è la causa di tutto ciò. C’è una sorta di curriculum parallelo al curriculum ufficiale. Da un lato la famiglia e la scuola che continuano ad essere abitate da genitori e da insegnanti che vorrebbero fare bene le cose perché aderiscono ad una idea formativa delle agenzie educative e cioè vogliono formare un figlio in crescita, un soggetto in crescita. Dall’altra, il mercato che non ha un’idea formativa della crescita ma piuttosto speculativa, consumistica, per cui in questo momento storico il minore rappresenta una occasione di profitto pazzesco. Il mercato si propone quindi di raggiungere chi sta crescendo, generando un desiderio consumistico che poggia proprio su sfide evolutive che tutti dobbiamo cogliere, anticipando, precocizzando quelle stesse sfide attraverso l’offerta di prodotti che diventano di per sé status symbol, offrendo l’illusione di aver raggiunto l’obiettivo di quella sfida evolutiva. I figli perciò premono tantissimo per possedere quegli oggetti status symbol, per entrare in quell’esperienza status symbol, trovandosi poi a fare delle esperienze per le quali non possiedono competenze e maturità, per gestirne implicazioni e complessità.
Se, come lei afferma nel suo libro, «esporre i minori a un modello erotico ben più avanzato rispetto al loro stadio di sviluppo si trasforma automaticamente in una forma di pressione psicologica, una vera violenza, un abuso innanzitutto sul piano emotivo», quali rischi si corrono? E soprattutto: come è possibile arginare questa tendenza?
Uno dei rischi, come racconto nel libro, è che ci troviamo di fronte a minori che rispetto all’area della sessualità si presentano fortemente disorientati, fortemente confusi e fortemente eccitati, quindi maneggiano una dimensione così importante della loro vita e della loro identità in modo molto maldestro. Purtroppo si devono muovere in quel territorio senza competenze: c’è confusione, eccitazione, inconsapevolezza ed ignoranza, perciò di sicuro non possono muoversi in modo adeguato. Come è possibile arginare questa tendenza? Da una parte non lasciare desertificato il terreno dell’educazione emotivo–affettiva e sessuale. Il paradosso che racconto nel libro Tutto troppo presto è proprio questo: un mondo così ipersessualizzato, così precocizzante ed adultizzante, oppresso da un mercato che è molto affamato, proprio come un Lucignolo che va a cercare i suoi Pinocchi proponendo un Paese dei Balocchi, dove, però, il giorno dopo ci si accorge che ci si è fatti molto male. Ecco, mentre questa realtà è così tanto presente, intensa e attiva nella vita dei nostri figli, molti adulti invece sono veramente silenziosi, muti rispetto al tema dell’educazione affettiva e sessuale. Non esiste un progetto. È un terreno desertificato dove il curriculum ufficiale delle agenzie educative non esiste mentre il curriculum parallelo delle agenzie non educative è debordante, straripante. Allora cosa possiamo fare? Noi adulti dobbiamo davvero prenderci la responsabilità di un’educazione affettiva e sessuale che aiuti i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze a capire che la sessualità è una dimensione integrata nella costruzione dei nostri processi identitari, è qualcosa che si deve integrare davvero bene dentro il nostro progetto di felicità e di vita e soprattutto è una cosa che non è orientata a generare gratificazione immediata o alla ricerca esclusiva (come obiettivo) del piacere, bensì è una dimensione finalizzata a spostarci dal territorio dell’eccitazione al territorio dell’intimità, dalla visione del fare sesso alla visione del fare l’amore. È una cosa che prevede appunto un importante lavoro educativo e soprattutto un’assunzione di responsabilità da parte degli adulti che su queste cose spesso rimangono vacanti, latenti, silenziosi, imbarazzati o spaventati.
Come procedere su questa strada della educazione affettiva e sessuale?
Dobbiamo convincerci che questa è un’area che ha assolutamente bisogno di entrare in modo stabile, coerente, profondo nell’esperienza educativa dei nostri figli all’interno delle agenzie educative. Abbiamo bisogno che ci sia una fortissima alleanza educativa tra famiglia e scuola. Noi siamo una delle pochissime nazioni in Europa in cui l’educazione affettiva e sessuale non c’è nei progetti scolastici. È paradossale perché nel contempo l’80% dei nostri figli maschi alle scuole medie sono frequentatori di siti pornografici, il che vuol dire che noi adulti dobbiamo fare un salto di qualità. Ci vuole davvero un DL che ci dica che questa cosa bisogna farla, poi dobbiamo decidere cosa vuol dire farla bene, ma dobbiamo deciderlo in fretta perché se ogni volta che esce una proposta l’unica risposta che riceviamo è “Questa roba non va bene, non la voglio per mio figlio” non andremo mai da nessuna parte. Dobbiamo anche sentire che c’è una responsabilità educativa che appartiene a tutto il contesto sociale, cioè dobbiamo sentirci tutti genitori sociali, non solo dei nostri figli, ma anche dei figli degli altri. Spetta agli adulti il compito di mettere un confine prima che sia troppo tardi e non lasciare che l’approccio alla sessualità avvenga nel più totale silenzio.
Alla parola adulto si associano concetti quali responsabilità, generatività, progettualità, profondità di conoscenza. Questi concetti hanno perso oggi il fascino e la capacità di suscitarne il desiderio?
In realtà questi concetti hanno senso quando l’adulto sa essere adulto con la A maiuscola, cioè ha a sua volta acquisito una autorevolezza, una compattezza intorno a queste dimensioni relativamente al suo essere adulto. Oggi vale un po’ il concetto di società liquida, cultura fluida, di indefinitezza, di superficialità: siamo diventati degli adulti iperattivi che tendono più ad offrire iperstimolazioni ai propri figli al posto di profondità e significazione. Questo è un mondo in cui si agisce tantissimo e si pensa poco. Guarda caso è anche il mantra di chi vive nell’online: fare tanti clic, “scrollare” tanto, e più diventi inconsapevole più rimarrai dentro quel territorio. Dentro queste parole — responsabilità, generatività, progettualità — c’è una sfida che vale per tutti: per i genitori, per i figli e in generale per tutta la società. Bisogna riprendere la dimensione etica profonda del nostro esistere, chiaramente in crisi, come ci dimostrano tanti aspetti diversi, dal pianeta che brucia alla stessa pandemia da Covid, che è diventata una sorta di cartina tornasole della superficialità con cui si affrontano le questioni che riguardano il mondo globale e che ci possono tornare indietro come un boomerang.
Nell’infantilizzazione dell’adulto si scorge l’incapacità non solo di assumersi delle responsabilità, ma anche di accettare il tempo, soprattutto quello della ripetizione, del dover ripercorrere gesti, mansioni, avvenimenti. Vivere la ripetizione, la consuetudine, la routine quotidiana può sembrare una scelta poco impegnativa, ma non è forse in questa dimensione che si esprimono lo stare nel tempo, la cura, l’impegno, la passione, la dedizione?
Direi che questo rimane un nodo cruciale. Effettivamente questo è un tempo che ama tantissimo la gratificazione immediata e che fa molta fatica a tollerare la frustrazione, l’impegno, il sacrificio. Dentro la parola sacrificio c’è qualcosa di sacro. A noi nel tempo moderno piace tantissimo il profano, ci piace l’avere invece dell’essere, la forma invece della sostanza. Abbiamo inventato l’idea del liberismo, cioè che tutti possono fare tutto quello che vogliono, se per loro c’è un guadagno… peccato per chi poi invece da quel modo di fare guadagno ne subirà un problema. Speriamo che impari anche lui a salire su quella barca e che impari come si fa. È un modo non cooperativo, non solidale, non umano, profondamente disumano di stare nelle cose. Per reggere questo modo si fa tutto velocemente, ci si può permettere di essere impulsivi, estemporanei e non responsabili. Essere responsabili vuol dire curare la qualità della risposta che si dà. Si fanno tantissime domande, si danno tantissime risposte e non è importante approfondire, è importante dire ed è tutta un’altra cosa. Direi che questo è anche il rischio di un sistema che ha delle opportunità meravigliose come il sistema dell’online: possiamo entrare in una conoscenza più profonda delle cose con una facilità, una velocità molto superiore a quella che era disponibile a me quando scrivevo un libro 20 anni fa. Per farlo dovevo girare un mese per biblioteche a cercare le fonti. Adesso in 10 giorni posso avere una Treccani di fonti nel file del mio computer. È un grandissimo vantaggio, ma in realtà tutto il sistema non è strutturato e costruito per aumentare la capacità di vedere con profondità e responsabilità il percorso della nostra vita. In realtà il social è molto più orientato a farci stare lì con un’attenzione notevole, molto più impulsiva ed estemporanea, un’attenzione disattenta. È questo il paradosso: stiamo attenti senza neanche renderci conto che siamo attenti a qualcosa che in realtà non stavamo neanche cercando, perché ci è capitato. Quando questo meccanismo viene trasferito, per esempio, nella vita di un minore, che si trova ad aver a che fare con tutta quella valanga di informazioni e messaggi che parlano di una sessualità che non sa neanche che cosa sia perché sta imparando a maneggiarla, ma la vede già tutta agita e non significata, è chiaro che il sistema che ha reso possibile questo è un sistema irresponsabile. Se quello è il modo con cui io mi affaccio al territorio della sessualità, quella diventerà una dimensione in cui sarò profondamente irresponsabile nel modo di gestirla all’interno della mia vita.
Che ruolo hanno in tutto questo la tecnologia, la comunicazione digitale e l’uso dello smartphone?
L’abbiamo detto un po’ in tutte le risposte. Resta forte, secondo me nel libro, l’idea che “tutto troppo presto” è un concetto chiave. Se noi ci consideriamo come genitori ed educatori abbiamo una responsabilità specifica circa l’uso personale dello smartphone da parte di un bambino di 9 anni: alla fine è proprio come regalare una Ferrari ad una persona che non ha la patente e non ha mai guidato un’auto: lo schianto è praticamente inevitabile. Il mercato rende facilmente accessibile tutto, a qualsiasi età senza filtro. L’adulto dovrebbe essere il sistema filtro che si mette in mezzo tra il mercato ed il figlio e permette di far passare solo quello che effettivamente è adatto, è adeguato alla sua capacità di gestione. La vita online andrebbe sempre condivisa e supervisionata. Questo, il mondo adulto, non l’ha fatto. Si è messo da parte e ha lasciato addirittura che fossero i figli a dire che cosa era un loro diritto avere con una totale inversione delle parti. Il figlio ordina al genitore di dargli quella cosa lì perché se non ce l’ha soffre, si sente male, si sente escluso. È proprio un paradosso educativo e di questo dobbiamo diventare consapevoli.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 22, NUMERO 2, Aprile 2021
Alberto Pellai è medico, psicoterapeuta dell’età evolutiva, dottore di ricerca in Sanità Pubblica, specialista in Igiene e Medicina Preventiva e lavora come ricercatore confermato presso il Dipartimento di Scienze Bio–Mediche dell’Università degli Studi di Milano, dove si occupa di Educazione alla salute ed Educazione Sanitaria e Prevenzione in età evolutiva. È stato post–doctoral fellow presso il Comitato Nazionale Statunitense di Prevenzione dell’abuso all’infanzia. Nel 2004 il Ministero della Salute gli ha conferito la Medaglia d’argento al merito in Sanità Pubblica. Ha pubblicato decine di lavori scientifici, è stato invited speaker in decine di conferenze nazionali e internazionali sempre in relazione ai suoi ambiti di interesse. Ha pubblicato molti libri per docenti e genitori, tra i quali: Tutto troppo presto. L’educazione sessuale dei nostri figli ai tempi di Internet, L’età dello tsunami, Il metodo famiglia felice, Il primo bacio, Girl R-Evolution (tutti editi da De Agostini), diventati best seller con numerose ristampe all’attivo e traduzioni all’estero. Ad oggi, i suoi volumi di educazione emotiva e prevenzione sono tradotti in quindici nazioni. Collabora stabilmente come divulgatore scientifico con molte testate nazionali, tra le quali sono incluse Famiglia Cristiana, Family Health e Radio24. Ha vinto numerosi premi letterari. Su Facebook gestisce una pagina dedicata all’educazione e alla prevenzione seguita da 90.000 followers.



