(di P. Antonio Maria Sicari o.c.d.)

Abitare… nell’Antico Testamento

Uno dei temi più suggestivi del messaggio biblico è senza dubbio quello dell’abitare, cioè dell’avere o offrire una dimora dove l’uomo possa essere accolto e sentirsi protetto. Questo tema attraversa la Scrittura in diversi modi, ma spesso con un preciso riferimento alla “casa del Signore”. Già nella preghiera dei Salmi il tema è ricorrente ed ha una particolare dolcezza, quando il pensiero va alla “casa di Dio” e a coloro che hanno la fortuna di potersi «saziare all’abbondanza della sua casa» (Sal 36,9): «Ma io per la tua grande misericordia / entrerò nella tua casa» (Sal 5,8) – «Felicità e grazia mi saranno compagne / tutti i giorni della mia vita, / e abiterò nella casa del Signore / per lunghissimi anni» (Sal 23,6) – «Signore, amo la casa dove tu dimori / e il luogo dove abita la tua gloria» (Sal 26,6) – «Una cosa ho chiesto al Signore, / questa sola io cerco: / abitare nella casa del Signore / tutti i giorni della mia vita, / per gustare la dolcezza del Signore / ed ammirare il suo santuario» (Sal 27, 4).

Nella casa di Nazareth

Una prospettiva diversa, ma ancor più gioiosa è data poi dal Nuovo Testamento, con il lieto annuncio che il Figlio stesso di Dio «è venuto ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14), nel grembo della Vergine “piena di grazia”, divenuta “tempio vivente” (cfr. Lc 1,35). E non finiremo mai di capire quanto siano decisivi per noi gli anni trascorsi da Gesù nella «casa di Nazareth»: tutto quello che possiamo sapere e immaginare della vita umile, forte e vera che Maria, Giuseppe e Gesù vi hanno trascorso per molti anni è per noi sia «una storia poetica» che una «teologia dogmatica esemplificata», utili per illustrare in mille modi il dogma dell’Incarnazione. E possiamo imparare molto da questa prima coppia di «sposi cristiani».

Da Maria perché fu la prima casa vivente offerta al Creatore, per fargli esperimentare l’abbraccio con la sua creazione: «L’unione tra la natura umana e quella divina, nella persona stessa di Gesù, si irradiava nella casa di Nazareth e si partecipava alle persone, agli avvenimenti e alle cose. Le raccomandazioni di Maria al suo Bambino, le loro chiacchiere d’ogni giorno, le risposte del Bimbo, le conversazioni più serie, man mano che Egli cresceva, avevano la qualità stessa della preghiera. Le carezze che madre e figlio si scambiavano, i gesti della reciproca cura e tenerezza, le quotidiane incombenze per mandare avanti la casa, il lavoro di ciascuno in famiglia, avevano la stessa qualità del culto reso a Dio. Gli sguardi posati su ogni frammento di realtà e su ogni episodio della giornata, e le inevitabili riflessioni, avevano la stessa qualità della contemplazione» (Ritratti di Santi, vol.10, Jaca Book, 2007).

Da Giuseppe perché fu il custode paterno e il saggio amministratore di questa stessa santa dimora: «Davanti allo Sposo di Maria stava il Bambino che sapeva tutto in cielo e doveva imparare tutto in terra. Gesù doveva imparare a chiamare Giuseppe “Abbà” per trasferire, in questo linguaggio infantile la sua eterna intimità col Padre celeste, e per insegnarcelo e per darne anche a noi il diritto. Gesù ha imparato prestissimo, — proprio rivolgendosi a Giuseppe — sillabe così brevi e familiari e subito le ha usate anche per rivolgersi al Padre celeste. Ed ecco che in cielo è penetrata questa invocazione “nuova” e sorprendente che ha rallegrato la Trinità. Invocazione che ora tutti possiamo usare. In seguito Giuseppe ha dovuto insegnare a Gesù le parole e i sentimenti umani che Egli poi avrebbe messo per noi nella preghiera del “Padre nostro”. Giuseppe, dunque, ha dovuto esaurire tutto se stesso nel rappresentare, nella famiglia di Nazareth, il volto del Padre celeste: la Sua provvidenza, la Sua energia, le Sue decisioni. Doveva con i suoi atteggiamenti e col suo stesso volto acuire nel bambino la nostalgia del Padre celeste, ma senza tristezza. E se pensiamo alla famiglia riunita — a quella che è stata chiamata la Trinità terrena — come dimenticare il mistero quotidiano che vi si ripeteva all’infinito? Per Giuseppe e Maria i due grandi Comandamenti che impongono di “amare Dio con tutto il cuore, l’anima e le forze” (Dt 6,5) e di “amare il prossimo come se stessi(Lev 19,18) diventavano una cosa sola, dato che Gesù era assieme il loro Dio e il loro prossimo, che potevano e volevano amare con un solo battito del cuore. Per Giuseppe e Maria il culto dovuto a Dio (preghiere, offerte, sacrifici…) era tutto a dimensione di Bambino: bastava parlargli e ascoltarlo; bastava aderire alle sue piccole necessità e ai suoi giochi; bastava loro ogni intervento educativo e ogni piccolo gesto di tenerezza» (Ritratti di Santi, vol. 12, Jaca Book, 2011).  

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“Andiamo alla casa del Signore!” (Sal 121,1)

Il Vangelo racconta poi premurosamente i primi pellegrinaggi del Figlio incarnato alla casa del Padre. Sappiamo così che Giuseppe e Maria “lo portarono al tempio per offrirlo al Signore”, quaranta giorni dopo la nascita secondo quanto la Legge mosaica prescriveva per tutti i primogeniti. E vi fu accolto dal vecchio profeta, Simeone, che lo proclamò “luce delle genti e salvezza del popolo” (Lc 2,38). Poi, quando Gesù compì dodici anni, avvicinandosi all’età in cui ogni fanciullo ebreo cominciava a prender parte al sacrificio pasquale, lo portarono al Tempio. Ed è bello e realistico immaginare che Gesù adolescente, in vista della città Santa, abbia cantato assieme agli altri pellegrini, secondo l’uso, il bellissimo Salmo che dice: “Che gioia quando mi dissero: / Andiamo alla casa del Signore! / Ed ora i nostri occhi si fermano / alle tue porte, Gerusalemme!” (Sal 121,1-2). La visita, conclusa in maniera inaspettata, con la “perdita e il ritrovamento” del Bambino nel Tempio, permise a Gesù di affermare solennemente quale fosse la sua vera “abitazione”: «Non sapevate che io devo stare nella casa del Padre mio?» (Lc 2,49). Anticipando possiamo subito ricordare come Egli, in seguito, si mostrerà sempre “geloso” della bellezza e del decoro della “casa del Padre” e soffrirà di vederla a volte trattata “come una spelonca di ladri” (cfr. Gv 2,15-17).

Le tante case del Figlio dell’uomo

Sono queste le immagini che dovremo conservare nella memoria e nel cuore quando, leggendo il Vangelo, sentiremo da Gesù questo accorato lamento: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Mt 8,20).

Ma è un lamento che illumina anche tanti altri momenti della “itineranza mendicante” di Cristo (e dei discepoli) nei quali a Gesù viene offerta anche una consolante “ospitalità”:

  • La casa dove Gesù invitò i primi discepoli che gli chiedevano: “Maestro dove abiti?” (cfr. Gv 1,38);
  • La “casa” che Gesù ci ha chiesto di costruire “sulla salda roccia della sua parola” (cfr. Mt 7,24);
  • La casa ecclesiale per la quale Simone è stato scelto dal Padre come “Pietra vivente” (cfr. Mt 16,18);
  • La casa dei pubblicani, che lo invitarono a pranzo dopo la conversione di Matteo (cfr. Mt 9,10-13);
  • La casa di Zaccheo dove Gesù stesso si è invitato per portarvi la salvezza e la conversione (cfr. Lc 19,5);
  • La fredda casa del Fariseo, dove i piedi del Maestro furono amorevolmente ripuliti e riscaldati dalle lacrime della peccatrice (cfr. Lc 7,36-50);
  • La casa in pianto per la fanciulla morta, dove tornarono la festa e la vita (Mt 9,18-26);
  • La casa del centurione che si sentiva indegno di ricevere Gesù, ma fu ugualmente rallegrata dal miracolo umilmente chiesto (cfr. Mt 8,5-11);
  • La casa dove Maria contemplava adorando e Marta lavorava per l’ospite divino (cfr. Lc 10,38-42);
  • La casa di Lazzaro dove l’amico risuscitato poté tornare dall’Amico (cfr. Gv 11,1-46);
  • La tenda che Pietro avrebbe voluto innalzare sul Tabor, per restare sempre nella gioia della trasfigurazione (cfr. Mc 9,2-8);
  • La casa di Betania, che si riempì del profumo costoso offerto da Maria (cfr. Gv 12,1-6);
  • La casa dell’ultima cena dove risuonarono i discorsi più intimi e venne donato il Pane dell’immortalità (cfr. Gv 23-17);
  • La casa triste che raccolse i discepoli rimasti soli e impauriti dopo la Crocifissione, e che poi si illuminò per la Presenza del Risorto (Gv 20,19-31).

Se la casa è l’amore

Tutti questi episodi non devono solo riscaldarci il cuore, ma preparare la scena decisiva: quella della Dimora vivente che Gesù ha voluto essere per ciascuno di noi, quando disse le parole che ci hanno ridonato il Paradiso: “Rimanete nel mio Amore” (Gv 15,1-17).

Tutti i veri innamorati intuiscono (almeno per un istante) che è possibile perfino abitare nel cuore di chi amiamo e avere il cuore abitato da chi ci ama. Ma ciò che non possono garantire è quella totalità e stabilità che appartengono soltanto a Dio.

Gesù non ci ha donato e chiesto soltanto l’amore, ma ci ha proposto perfino l’immanenza della persona alla persona: “Rimanete in me ed io in voi”.

Non solo, ma donandosi a noi e accogliendoci, ci ha perfino garantito l’inabitazione di tutta l’immensa e gloriosa Trinità: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23).

Un autore inglese di fine Ottocento, C. Dickens, nel suo romanzo Nicholas Nickleby ha narrato la storia commovente di un ragazzino claudicante e maltrattato che incontra finalmente un vero amico che lo aiuta a fuggire dai suoi oppressori. Tenerissimo è il primo dialogo che ne segue: «Ma te, dove hai casa?». «La mia casa sei tu!», risponde il poveretto che non ha altro nella vita.

È questa la nostra storia cristiana.

Dopo il Paradiso perduto, non avevamo più una casa, ma solo tanta nostalgia. Ed ecco che un amico è venuto a prenderci con sé.

Là, dove tutti gli uomini sono a casa

Ora possiamo capire che cosa è avvenuto a Natale: abbiamo finalmente trovato la nostra dimora. Perciò la storia di Natale può essere davvero cantata come ha fatto splendidamente Chesterton in questa sua geniale poesia, tratta dalla raccolta Lo Spirito di Natale:

«Laggiù una madre senza posa camminava, / fuori da una locanda ancora a vagare; / nel paese in cui lei si trovo senza tetto, / tutti gli uomini sono a casa. // Quella stalla malconcia a due passi, / fatta di travi instabili e sabbia scivolosa, / divenne qualcosa di così solido da resistere e reggere / più delle pietre squadrate dell’impero di Roma. // Perché tutti gli uomini hanno nostalgia anche quando sono a casa, / e si sentono forestieri sotto il sole, / come stranieri appoggiano la testa sul cuscino / alla fine di ogni giornata. // Qui combattiamo e ardiamo d’ira, / abbiamo occasioni, onori e grandi sorprese, / Abbiamo mani all’opera e teste capaci, / ma i nostri cuori si sono persi — molto tempo fa! / In un luogo che nessuna carta o nave può indicarci / sotto la volta del cielo. (…) // Di notte presso una capanna all’aperto / giungeranno infine tutti gli uomini, / in un luogo che è più antico dell’Eden / e che alto si leva oltre la grandezza di Roma. // Giungeranno fino alla fine del viaggio di una stella cometa, / fino a scorgere cose impossibili che tuttavia ci sono, / fino al luogo dove Dio fu senza un tetto / e dove tutti gli uomini sono a casa».

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 17, NUMERO 4, Dicembre 2016